E lo spoiler arriverà in ogni città. E nessuna avrà scampo. Distruggerà la valle e annienterà la pianura, come ha detto il Signore. Lo scrive il profeta Geremia, capitolo 48, versetto 8, del libro che da lui prende il nome, contenuto nell’Antico Testamento. Il profeta, che peccava un po’ di pessimismo, usò quel termine — che nella traduzione inglese della Bibbia di re Giacomo è diventato “Spoiler” — per indicare la forza divina distruttrice che si sarebbe scagliata contro i moabiti, popolo giordano colpevole di eccesso di orgoglio, di corruzione e di miscredenza.
È passato parecchio tempo. Quella stessa violenza che alimentava le profezie di Geremia ora è finita in altre profezie di uomini barbuti nerovestiti, mentre quel termine, Spoiler, ce lo siamo presi noi, costruendoci una specie di religione il cui idolo è la trama, e il cui peccato mortale è per l’appunto lo Spoiler, una parola che, negli ultimi dieci anni ha riempito i nostri discorsi, virtuali e analogici, guadagnandosi un significato proprio anche in italiano e non avendo più bisogno di essere tradotta.
Abbiamo fatto di Spoiler un nome e ci abbiamo derivato un cacofonico verbo: Spoilerare. Dell’originale biblico abbiamo mantenuto la carica di violenza e l’appartenenza semantica all’universo della devastazione, ma, rispetto ai temi di Geremia, ne abbiamo cambiato lo statuto, da soggetto distruggente a arma di distruzione, e l’orientamento, da atto di giustizia a atto di viltà.
Oggi lo spoiler, inteso come rivelazione di una parte essenziale della trama di un prodotto culturale, si è ampiamente guadagnato un posto di rilievo nella lista delle vigliaccate e dei gesti che la società dello spettacolo stigmatizza e condanna con violenza. Per certi versi, soprattuto per la violenza del sentimento e l’irreparabilità dello stimma, l’odio che colpisce gli spoileratori è simile a quello che, in altre epoche, colpiva i crumiri che rimanevano in fabbrica durante gli scioperi. Lì ci si giocava il riscatto sociale di una intera classe subalterna. Qui in gioco c’è ben altro.
Chiunque si sia trovato a tentare di commentare con amici un film o una serie tv negli ultimi dieci anni conosce perfettamente la grottesca situazione in cui i discorsi su qualsiavoglia prodotto narrativo vengono congelati dalla presenza nel gruppo di discussione di qualcuno che è rimasto indietro, che non ha visto un film o, in una serie, è arrivato alla puntata prima di un certo avvenimento. Esagerato pensare che delle amicizie siano finite per cose del genere, ma lo è molto meno riflettere sulla quantità di discorsi abortiti o evitati a causa del terrore dello Spoiler. Insomma, la questione ci è scappata di mano.
Lo scrittore e giornalista americano Adam Sternbergh, citato dal suo collega Derek Thompson in un articolo su questo argomento pubblicato dall’Atlantic nell’ottobre 2014, scrisse: «Non credo che la visione di Quarto Potere sia una esperienza meno potente se sappiamo già che Rosebud [SPOILER ALERT] è una slitta».
Le parole di Sternbergh ci portano al primo argomento a favore degli Spoiler, o meglio, contro la loro violenta stigmatizzazione. È il fatto che la grandezza delle narrazioni — delle grandi narrazioni, ma poi ci arriviamo — non sia, come il diavolo, nei dettagli. O almeno, che non sia soltanto nei dettagli. Continua Sternbergh: «Il colpo di scena è certamente uno dei piaceri che i bei film e i bei prodotti televisivi ci offrono, ma non è il solo e, francamente, è forse il più basico».
Certo, ci sono film la cui prima visione — o libri la cui prima lettura — è potentissima proprio a causa di dettagli, di twist della trama che ribaltano completamente l’orizzonte di attesa che lo stesso prodotto aveva costruito nella mente del lettore o dello spettatore.
C’è un racconto di Roald Dahl, per esempio, che si intitola Genesi e catastrofe e che è probabilmente il racconto breve più fulminante che il genio norvegese abbia mai scritto. In 5 pagine, Dahl racconta pochi minuti del travagliato parto di una donna. Lo racconta in modo che il lettore empatizzi con lei e con il bambino, in maniera talmente potente che a un certo punto al lettore sembra implorare ancora più forte della madre che il medico salvi il neonato. La costruzione narrativa del racconto è talmente perfetta che anche sapendo prima che quella è la mamma di Hitler non perdiamo nulla del godimento estetico. Anche se sappiamo che quello che il medico sta salvando è Adolf Hitler, ogni volta che leggiamo quel racconto tifiamo per lui.
Nello stesso modo, è vero che il godimento per capolavori cinematografici come I soliti sospetti o Il sesto senso, per restare nei generi di intrigo e di suspense — generi che chiaramente dipendono di più dagli effetti sorpresa — dipende da alcuni detatgli della trama di cui è meglio non essere a parte alla prima visione. Ma affermare che quei dettagli siano tutto ciò che rende quei film dei capolavori equivarrebbe a dire che quei prodotti sono dei film scadenti, che durano una visione sola. Il che è falso.
Questo aspetto della seconda visione ci porta a un altro argomento utile per distruggere l’idolo dello Spoiler: la necessaria replicabilità dell’atto di fruizione di un’opera d’arte o di un prodotto culturale. Parafrasando una celebre frase che Platone mise in bocca a Socrate per significare l’inutilità del timore della morte: non ha senso temere gli Spoiler, perché quando ci sono loro non c’è arte, e quando c’è arte, non ci sono loro.
La potenza dell’arma dello Spoiler, infatti, è indirettamente proporzionale alla potenza e alla significanza narrativa di una storia. Più un prodotto narrativo è significante, meno porgerà il fianco agli Spoiler, meno ne avrà il timore. D’altronde, se non fosse così, che senso avrebbe l’esistenza dei classici? Che interesse avremmo a leggere ancora capolavori immortali come Anna Karenina, Moby Dick, Il richiamo della foresta, L’isola del tesoro e via dicendo. La grandezza di Tolstoj non si misura nella scelta di far suicidare Anna sotto un treno, ma nel fatto che, ogni volta che leggiamo Anna Karenina, pur sapendo il finale, ci ritroviamo a sperare che Anna cambi idea.
È il paradosso della suspense, come spiega Noel Carroll nel suo eponimo “The Paradox of Suspense”. Carroll sostiene che la suspense richieda semplicemente una “incertezza divertita”, non una “vera incertezza”. Anche se sappiamo come finisce un film, scrive sempre Carroll, possiamo immaginare, ogni volta che lo vediamo, che non finisca per niente così. Il segreto sta nel fatto che basta immaginare che gli esiti di un evento siano incerti per provare l’effetto della suspense. Se non fosse così, la quasi totalità delle narrazioni filmiche, romanzesche e seriali dell’ultimo secolo sarebbero da buttare via. D’altronde, non c’è neppure bisogno di scomodare i buon Matisse ormai, per sostenere senza tema di smentita che l’arte è rappresentazione della realtà, non realtà.
C’è un’altra teoria interessante a proposito dello Spoiler, una teoria che viene dalla psicologia e che è stata messa alla prova con un esperimento condotto nell’Università di San Diego da parte dei professori Jonathan Leavitt e Nicholas Christenfeld. I due, tra il 2010 e il 2011, sottoposero a più di 800 studenti una serie di 4 racconti a testa. 3 di questi gli erano stati forniti nell’edizione originale, l’ultimo, invece, gli veniva sottoposto con una premessa che ne spoilerava l’elemento chiave. Il risultato? Nella quasi totalità dei casi, il godimento estetico dichiarato dagli studenti era più alto quando si trovavano davanti all’opera spoilerata. Se siete arrivati fin qui la cosa non dovrebbe stupirvi.
È interessante, per finire, tornare su quel che scrivono Leavitt e Christenfeld, che concludono così il loro studio: «Sebbene i nostri risultati suggeriscano che la gente stia perdendo il suo tempo temendo gli spoiler, i dati che abbiamo raccolto non suggeriscono il fatto che gli autori sbaglino a tenere nascosti i dettagli delle loro trame. […] Intuizioni erronee sulla natura degli spoiler possono persistere perché singoli lettori sono incapaci di comparare, nella propria esperienza singola, esperienze di fruizione spoilerata e non spoilerata dello stesso prodotto. Ma anche altre intuizione sulla suspense possono essere errate: forse è ancora un bene impacchettare i regali ai compleanni, e anche gli anelli di fidanzamento, a meno che non siano celati dentro una mousse di cioccolato».