Quelle gru di carta in memoria delle vittime di Hiroshima

La tradizione, iniziata da Sadako Sasaki, è il simbolo delle conseguenze della tragedia atomica: quasi 300 mila morti per l'esposizione alle radiazioni e un memoriale che non basta ad accogliere tutti i loro nomi

Bambini e adulti continuano ad intrecciare e a comporre gru di carta, per seguire l’esempio di Sadako Sasaki. Sadako aveva solo due anni quando l’Enola Gay, un bombardiere B-29 dell’aeronautica americana, sganciò su Hiroshima la prima bomba atomica della storia dell’uomo. Si trovava a 1600 metri dall’ipocentro. Non era ferita in maniera seria, per cui riuscì a fuggire dalla casa in fiamme, assieme alla propria madre. Si imbatté, però, nella famigerata pioggia nera, generata da un impasto di detriti e polveri radioattive mescolate al vapore acqueo. Sadako crebbe in (apparente) piena salute, tanto da entrare nella squadra di atletica della propria scuola.

Due lustri dopo la bomba, durante il sesto anno di scuola elementare, iniziò ad avvertire segni di un malattia. Era la leucemia. In ospedale cominciò ad intrecciare gru di carta, sperando che questo semplice gesto da bambina potesse aiutarla a sconfiggere il destino. Battaglia persa: Sadako morì dopo otto mesi. La sua storia divenne il simbolo dell’infanzia violata dalla Storia e portò alla costruzione, ad Hiroshima, di un monumento dedicato ai bambini vittime dell’atomica, finanziato da donazioni arrivate da tutto il Giappone, tra cui 5.200 scuole, e da altri nove Paesi.

Oggi, gru dopo gru, bambini e adulti intrecciano e compongono, compongono e intrecciano, in modo da lasciare il proprio, inequivocabile, messaggio: mai più. Lo fanno in una stanza del Museo della Pace, uno degli edifici – il principale – che si stagliano nello spazio verde consacrato dai giapponesi alla meditazione e al ricordo del 6 agosto 1945: il Memorial Peace Park. Una memoria che è allo stesso tempo impegno, perché dal Giappone, l’unico Paese che ha vissuto sulla propria carne viva gli effetti della bomba, nacque nel secondo Dopoguerra un movimento d’opinione volto a bandire le armi nucleari.

L’atomica, si sa, è arma di deterrenza, e così ha funzionato in epoca di guerra fredda. E la storia, del resto, continua ancora oggi: da Israele all’India, dal Pakistan alla Corea del Nord, fino all’Iran, si vuole la bomba per scopi di difesa, o di intimidazione. L’atomica è una spada minacciosa che fornisce uno status geopolitico. Malgrado le promesse fatte tra gli anni Ottanta e Novanta, e gli accordi presi tra Stati Uniti e Russia, oggi ci sono ancora 16.000 testate nucleari. Difficile che in tempi brevi si possa esaudire il desiderio incarnato dalla fiamma del Memorial Peace Park, che continuerà ad ardere fino a quando l’ultima arma atomica non verrà distrutta.

Fioccano le giornate della memoria, ma l’anniversario dell’Olocausto nucleare tende a cadere nel dimenticatoio, al di fuori dal Giappone. Eppure sarebbe utile passeggiare nel silenzioso e composto parco costruito negli anni Cinquanta come una sorta di spazio per la preghiera collettiva, un giardino curato come solo i giapponesi sanno fare. Tra i 145 progetti, il Comune selezionò quello dell’architetto Kenzo Tange, con un asse centrale che va dal Museo della Pace alla Cupola della Bomba Atomica, visibile attraverso l’arco del cenotafio che commemora le vittime. Linee geometriche, fredde perché sobrie, riscaldate dalla fiamma perennemente accesa e dai fiori costantemente depositati ai piedi dello stesso arco.

La camera di pietra al centro del Cenotafio contiene l’anagrafe delle vittime; l’iscrizione sul pannello anteriore offre una preghiera per il riposo dei morti e incarna l’idea di Hiroshima come città della pace. Tutto è funzionale, nello sforzo dei giapponesi di raccogliere e tramandare la memoria storica. Un esempio su tutti, la Sala della Rimembranza, dove una piccola biblioteca offre la possibilità di ascoltare i racconti in video dei sopravvissuti, coi sottotitoli in varie lingue. Parole che rievocano sempre la stessa scena: una enorme luce, poi, improvvisamente, senza sapere come e perché, ci si ritrova a respirare a fatica, sommersi dai detriti di un qualsiasi edificio in frantumi. A John Hersey, giornalista del New Yorker – autore di un memorabile reportage scritto un anno dopo la bomba, talmente portentoso da riempire un’intera edizione della rivista – i sopravvissuti dissero di non avere sentito alcun rumore.

L’anniversario dell’Olocausto nucleare tende a cadere nel dimenticatoio, al di fuori dal Giappone. Eppure sarebbe utile passeggiare nel silenzioso e composto parco costruito negli anni Cinquanta come una sorta di spazio per la preghiera collettiva, un giardino curato come solo i giapponesi sanno fare

In uno spazio attiguo alla biblioteca si possono leggere le testimonianze scritte e sfogliare i disegni realizzati dai bambini dopo la tragedia. In un’altra sala scorrono, su un monitor, nomi e foto delle vittime. Entro la fine del 1945 morirono circa 140.000 persone, molte delle quali non identificate. All’epoca in città c’erano 350.000 residenti, compresi coreani e cinesi, cittadini di due Paesi che il Giappone aveva invaso, e prigionieri di guerra americani. Tutti quelli che vivevano nel giro di 1,2 chilometri dall’ipocentro subirono lesioni agli organi interni e persero la vita nei giorni successivi all’esplosione. Inizialmente sembrava che i sopravvissuti potessero mantenersi in salute, ma molti di loro negli anni successivi cominciarono ad avvertire sintomi inequivocabili di leucemia, cancro e altre malattie causate dalle emissioni radioattive. A partire dal 1946 migliaia di persone morirono ogni anno. Gli abitanti di Hiroshima continuarono a vivere con questa spada di Damocle, nutrendo il timore che gli effetti delle radiazioni si potessero manifestare ad ogni istante. La contabilità definitiva resta ancora oggi incerta, ma si avvicina terribilmente alle 300.000 vittime.

A poca distanza dalla Sala della Rimembranza c’è il suo complemento ideale, il Museo della Pace, dove un orologio fermo alle 8.15 di quel 6 agosto ricorda l’inizio dell’ecatombe. Le vesti stracciate, da cui, in alcuni casi, erano stati strappati brandelli di pelle, simboleggiano una lacerazione che è fisica e morale. Le fotografie dei malati sono spesso insostenibili allo sguardo. I racconti del 6 agosto 1945 sono propedeutici all’ultima sezione, quella che racconta la battaglia per bandire le testate atomiche (attualmente la Russia ne ha circa 8000, gli Stati Uniti più di 7300, la Francia 300, la Cina 250, la Gran Bretagna 225, il Pakistan tra 100 e 120, l’India tra 90 e 110, Israele 80, la Corea del Nord tra 6 ed 8). L’obiettivo è di andare al di là del Trattato di Non-Proliferazione del 1970 – la Convenzione del 1996, che bandiva i test non è mai entrata in vigore – per arrivare all’eliminazione completa.

C’è chi fa jogging davanti alla Cupola della Bomba Atomica, ormai il simbolo di Hiroshima. L’edificio, in stile viennese, fu completato nel 1915, su progetto dell’architetto ceco Jan Letzel, e divenne subito uno dei cuori pulsanti della città: centro commerciale, sede di fiere e mostre. Durante la guerra le funzioni della Hiroshima Prefectural Commercial Exhibition Hall cambiarono e furono riconvertite a beneficio di varie agenzie governative. Il 6 agosto la bomba esplose a 600 metri di altezza e 160 metri a sud-est rispetto alla Hall. Tutti quelli che si trovavano nell’edificio morirono all’istante. La caratteristica cupola fu devastata, ma lo scheletro rimase intatto, assieme ad altre parti dell’intera struttura.

Inizialmente sembrava che i sopravvissuti potessero mantenersi in salute, ma molti di loro negli anni successivi cominciarono ad avvertire sintomi inequivocabili di leucemia, cancro e altre malattie causate dalle emissioni radioattive. A partire dal 1946 migliaia di persone morirono ogni anno

Dopo la guerra ci si chiese cosa si dovesse fare con i resti dell’edificio. I giapponesi erano divisi. Alcuni sostenevano che dovessero essere preservati, a futura memoria. Altri che dovessero essere completamente distrutti, proprio perché evocavano un evento tragico. Vinse la prima ipotesi e nel 1966 il consiglio comunale di Hiroshima votò una risoluzione con la quale veniva avviata una campagna di fundraising per finanziare il restauro. Le donazioni, unite a messaggi di pace, arrivarono da tutto il mondo, permettendo lavori di ristrutturazione sin dall’anno successivo. Il progetto riuscì, tanto che nel 1996 la A-Bomb fu inserita dall’Unesco nella lista dei siti patrimonio dell’Umanità, testimonianza dell’orrore nucleare e simbolo della campagna per l’abolizione delle armi atomiche. Per proteggere la cupola, il governo designò l’area circostante come sito storico.

Il Giappone di oggi combatte tra l’eredità della guerra e la volontà di conquistare nuovi spazi di protagonismo politico. Il premier Shinzo Abe ha fatto approvare un pacchetto di leggi che modifica l’interpretazione del celebre articolo 9 della Costituzione, quello secondo cui il Paese non può avere un esercito (ma solo “forze di autodifesa”). Adesso, dopo 70 anni di pacifismo imposto dagli Stati Uniti, queste forze potranno essere impiegate in missioni armate al di fuori dei confini nazionali. Potranno fornire supporto logistico ad eserciti di Paesi amici, intercettare missili balistici diretti verso gli alleati, partecipare a missioni di pace Onu ad elevato rischio, impegnarsi in operazioni di combattimento per salvare ostaggi giapponesi o in missioni militari per tenere aperte le rotte marittime di importanza strategica.

Una svolta muscolare, piuttosto controversa, che ha suscitato non poche proteste. Nella cultura popolare il pacifismo è ancora uno dei tratti forti. Un esempio su tutti, l’esposizione che il Manga Museum di Kyoto ha dedicato l’anno scorso al rapporto tra l’esperienza di guerra e l’immaginario delle generazione successiva, espresso attraverso una delle forme d’arte più diffuse in Giappone, il fumetto. La mostra Manga and War, divisa in sei sezioni (bomba atomica, missioni speciali, come quelle dei kamikaze, Manciuria, Okinawa, voci della generazioni di guerra, il ruolo del manga), ha rappresentato il coro unanime di ventiquattro artisti che cantavano la stessa strofa: «Mai più».

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