Dodici anni, il tempo necessario perché nel mondo si sviluppasse la cultura del blocking. «La rete allora era diversa – afferma Giacomo Fusina, fondatore di Human Highway – La messaggistica era essenzialmente confinata a mail e sms, mentre il mobile non aveva ancora sviluppato la connettività web». Poi le cose sono cambiate, fino a come le conosciamo oggi: iperconnessione, accesso quasi illimitato a contenuti digitali, sviluppo dell’ecommerce. E della pubblicità. L’advertising si è evoluto al ritmo del click-through rate (il tasso di efficacia di una campagna pubblicitaria online in base ai click dell’utente). Spesso con esiti frustranti per chi dall’altra parte dello schermo “smadonnava” in cerca dell’icona per chiudere un pop-up, ma nel frattempo aveva aperto almeno una decine di schede diverse. «In verità la prima intrusione è stata lo spam – continua Fusina dal palco della Social Media Week di Milano – che abbiamo imparato a limitare. Poi, coi social network, le richieste di amicizia da profili falsi o indesiderati. Anche in quel caso con un semplice click li potevamo segnalare. Infine, è arrivato l’adblocking che ci permette un’esperienza digitale più piacevole evitando la corsa ad ostacoli fra overlay, banner e quant’altro». Un risultato che testominia la plasmabilità della rete: l’utente che dice «no» a certi contenuti, che decide consa vedere e di cosa fare a meno. L’inizio del calvario per gli inserzionisti e gli editori che grazie alla pubblicità hanno creato il loro businness.
Un recente studio della società Juniper prevede che entro il 2020, gli editori perderanno circa 27 miliardi di dollari a causa degli adblocker, una buona fetta dell’intero settore pubblicitario online che, nonostante tutto, fra il 2014 e il 2015 ha fatto registrare un aumento del 20%
Ma cosa sono gli adblocker? Si tratta di estensioni che si applicano al proprio browser di navigazione e svolgono la funzione di bloccare o alterare i contenuti pubblicitari ospitati nelle pagine web di destinazione. Così facendo, non solo si evita di finire preda di video e audio che partono in automatico e a tutto volume per presentarti l’ultimo modello di auto sportiva che non potrai mai permetterti, ma si ha un minore spreco di risorse (banda, dati, batteria, cpu, ecc.). Il software più famose è senza dubbio Adblock Plus. Prodotto dalla società tedesca Eyeo, a maggio di quest’anno ha annunciato che è molto vicina alla soglia del miliardesimo download confermando che sarebbero almeno 100 milioni gli utenti che lo utilizzano attivamente sui propri dispositivi. E se in Italia si è registrato un aumento del 134% fra il 2014 e il 2015, i maggiori fruitori del servizio – soprattutto su dispositivi mobile – abitano in Cina, India e Pakistan: il 36% degli smartphone in quella regione utilizzano un adblocker. Numeri che confermano la vittoria degli utenti e la crescente domanda per un utilizzo meno invasivo dell’advertising. Non a caso, Ad Blocker sta per lanciare un browser che ha già integrata la possibilità di bloccare le pubblicità più invasive. Ma non tutto il bene vien per beneficiare.
Dall’altra parte della barricata si trovano pubblicitari ed editori. Per loro, gli adblocker al momento sono ancora un nemico da battere. Un recente studio della società Juniper prevede che entro il 2020, gli editori perderanno circa 27 miliardi di dollari a causa degli adblocker, una buona fetta dell’intero settore pubblicitario online che, nonostante tutto, fra il 2014 e il 2015 ha fatto registrare un aumento del 20% toccando un valore complessivo vicino ai 60 miliardi di dollari. Il picco massimo negli ultimi cinque anni. Grande merito va alla pubblicità su mobile che, a fronte di un investimento del 12% rispetto al totale, fa registrare un aumento del 66%. Più di dieci volte rispetto alla crescita della pubblicità su desktop (che in ogni caso mantiene il primo posto in quanto a ricavi). Cifre che, contemporanemante, descrivono il prossimo campo di battaglia – la telefonia mobile – e portano in superficie il casus belli.
«Soprattutto nel campo dell’editoria si nota come alla base dell’adblocking ci sia la rottura del patto con l’utente», afferma Fusina. «Chi vende beni o servizi, tipo Amazon o Ebay, sono ossessionati dagli utenti, o meglio: dal ricavo che deriva dalla loro attenzione verso un determinato prodotto che risponde alle loro esigenze. La profilazione dell’acquirente è così elevata che alcune piattaforme arrivano a proporci il prossimo acquisto da fare in base a quello che ci piace. Gli editori invece stanno vivendo una crisi di identità. Non vendono più contenitori o contenuti, ma utenti per le agenzie pubblicitarie. Così si crea un corto circuito. Con l’adblock il patto per cui “io ti offro contenuti più economici se tu accetti la mia proposta pubblicitaria” si è rotto. Ma ciò significa che se ne può siglare un altro». Quello che prova a fare Adblock Plus con la piattaforma Flattr Plus che propone contenuti originali in cambio di un pagamento online che eviti il ricorso alla pubblicità classica. Insomma, per riprendersi i lettori la soluzione sembra essere quella di un ritorno al web pre-2.0, come dimostrano l’introduzione di sistemi di paywall e abbonamento digitale.
D’altronde, «la vera questione è la rilevanza», dice Pier Luca Santoro, project manager di Data Media Hub. «Se a parità di condizione – continua Santoro, anche lui presente sul palco della Social Media Week – mi offri contenuti che non hanno niente a che vedere col mio interesse è ovvio che c’è un cortocircuito. Dal mio personalissimo osservatorio, posso dire che siamo indietro da questo punto di vista. Quello che dovremmo fare è superare l’attention economy per andare verso un modello che tenga maggiormente in considerazione l’intuizione. Come comunicatori e pubblicitari dobbiamo catturare il desiderio o almeno la propensione in termini di attitudine al fare o compiere una certa azione dell’utente». Una rivoluzione copernicana che mette al centro il valore piuttosto che il volume. Un obiettivo che, secondo Santoro, è già a portata di mano: «Guardate Facebook per esempio. Loro sono già arrivati a un livello di simbiosi molto avanzato con l’utente. A me, personalmente, non interessa se mi “ruba” tutti i dati e se dopo tre giorno che ho pubblicato una foto di scarpe mi becco gli annunci e le offerte di tutte le marche di calzature da uomo. Perché per me il valore del servizio che Facebook mi offre, ossia quello di restare in contatto con una determinata cerchia di persone, è talmente grande che tutto il resto passa in second’ordine. È questo che le aziende devono realizzare: creare fra brand e persone una coincidenza di interessi che permetta la tolleranza delle varie forme di comunicazione pubblicitaria».
«Con l’adblock il patto per cui “io ti offro contenuti più economici se tu accetti la mia proposta pubblicitaria” si è rotto. Ma ciò significa che se ne può siglare un altro»
Un passo in questo senso potrebbe essere già stato fatto da Pubtools. Una serie di strumenti ideati per le redazioni con cui tenere sotto controllo la pubblicità online presente sulla propria pagina. Il suo funzionamento prevede che se una pubblicità dovesse risultare troppo invasiva per un utente, l’editore avrebbe la possibilità di bloccarla senza perdere il contatto pubblicitario e il rapporto con il lettore. Un’altra soluzione potrebbe essere quella utilizzata dalle app di giochi online: «Se voglio un upgrade per il mio personaggio o voglio sbloccare un componente aggiuntivo o un nuovo livello – spiega Santoro – devo passare attraverso la visione di un video o un banner. Una richiesta che va nella direzione di ciò che vuole ottenere l’utente». Per Fusina «basterebbe utilizzare un po’ di buon senso»: un’indagine realizzata da Pagefair ha dimostrato che la categoria di persone che maggiormente si lamenta dell’invasività pubblicitaria è quella con un’istruzione e un reddito elevati. I clienti migliori. Quelli che possono spendere. Recuperarli è la vera sfida degli inserzionisti online.