«L’idea che il Regno Unito possa uscire dall’Ue mi preoccupa profondamente. Ormai mi sento europea, prima che britannica». Amanda Thursfield è nata a Nottingham, la città di Robin Hood. Ma da quasi quindici anni vive a Roma. È la direttrice del cimitero acattolico che sorge vicino Porta San Paolo, all’ombra della Piramide Cestia. Qui sono sepolti, tra gli altri, i poeti inglesi John Keats e Percy Bysshe Shelley. Come molti connazionali che abitano nella Capitale, anche lei inizia a interrogarsi sulle incognite del referendum per la Brexit.
Quella britannica è una comunità relativamente piccola, di cui è difficile conoscere persino l’esatta dimensione. Secondo i dati Istat, in Italia risiedono 30mila cittadini del Regno Unito. Poco meno di 3mila a Roma. Professionisti, studenti, insegnanti d’inglese. Non mancano sacerdoti e funzionari della Fao. È una realtà aperta, perfettamente assorbita dalla città. «Molti sono qui perché amano la cultura di questo Paese» spiega John Hooper, corrispondente dell’Economist, in Italia dal 2003. «Sono persone già predisposte all’integrazione». È un tratto distintivo della comunità: orgogliosi delle proprie radici, ormai quasi tutti si sentono un po’ romani. E così i legami con gli altri britannici finiscono per perdersi.
ll luogo che racconta meglio la presenza britannica a Roma è Piazza di Spagna. Per anni la zona attorno alla scalinata di Trinità dei Monti è stata conosciuta come il “ghetto inglese”. Qui prese casa il poeta John Keats e abitò George Gordon Byron. Nella vicina via del Babuino c’è la chiesa anglicana di Ognissanti
Nella Capitale tanti hanno trovato l’amore. È il caso di Rachel Roddy, che una decina di anni fa si è trasferita da Londra a Testaccio. Food blogger, ha una rubrica sul Guardian: a Kitchen in Rome. Ogni settimana presenta un piatto della nostra tradizione culinaria. Pasta al forno, gnocchi, l’ultima puntata è dedicata alla carbonara. «La Brexit? Se usciamo dall’Europa sarà un disastro» ammette. «Anche io sono a favore del “Remain”, absolutely».
Il luogo che racconta meglio la presenza britannica a Roma è Piazza di Spagna. Per anni la zona attorno alla scalinata di Trinità dei Monti è stata conosciuta come il “ghetto inglese”. Era il punto di riferimento per gli artisti e i viaggiatori innamorati della Città Eterna. Qui prese casa il poeta John Keats, dove oggi ha sede il Keats and Shelley Memorial House. E poco distante abitò George Gordon Byron. Nella vicina via del Babuino c’è la neogotica chiesa anglicana di Ognissanti, All Saints Church. Sempre qui, a pochi passi dalla fontana della Barcaccia, due giovani donne inglesi fondarono a fine Ottocento la sala da tè Babington, ancora in attività. Non è un caso se la sede del British Council si trova proprio da queste parti. È l’ente britannico per la promozione delle relazioni culturali. Si trova dalle parti di Valle Giulia, invece, l’Accademia britannica. Il centro di ricerca sull’archeologia, l’arte e la storia italiana che accoglie diversi borsisti provenienti da numerose università inglesi. Una quarantina di studiosi ogni anno.
Secondo i dati Istat i cittadini del Regno Unito residenti a Roma sono 3mila. «Molti sono qui perché amano la cultura di questo Paese» spiega John Hooper, corrispondente dell’Economist. «Sono persone già predisposte all’integrazione». Orgogliosi delle proprie radici, ormai quasi tutti si sentono un po’ romani
Bastano poche chiacchiere sul referendum per capire come la vedono i britannici che vivono in città. L’impressione è che siano quasi tutti schierati per la permanenza del Regno Unito in Europa. La pensano davvero così? «Secondo me la maggior parte sì», spiega il giornalista Hooper. «E sarà lo stesso per i cittadini britannici che vivono in altri paesi d’Europa». La spiegazione è fin troppo evidente: «Travel broadens the mind: viaggiare espande la mente».
E poi c’è la comunità religiosa. Circa quaranta seminaristi britannici studiano al Venerabile collegio inglese, nato nel XIV secolo come luogo di accoglienza per i pellegrini d’Oltremanica. Altri sono ospitati al Beda College, vicino alla basilica di San Paolo fuori le mura. E una ventina presso il Pontificio collegio scozzese, sulla via Cassia. Senza contare i sacerdoti che insegnano in diversi istituti della Capitale. Fede e sport. Qualche anno fa il Vaticano ha persino fondato una sua squadra di cricket, formata da religiosi e seminaristi originari del Commonwealth. Il capitano è padre Tony Currer, un sacerdote inglese. Si allenano a Capannelle e spesso danno vita a partite simbolicamente importanti. Come il derby con la Chiesa anglicana. «In campo c’è grande rispetto, ma gli incontri sono combattuti» racconta chi li ha visti. Dopo una vittoria a testa, a settembre la selezione vaticana tornerà in Inghilterra per giocare l’attesa terza sfida. L’appuntamento è molto sentito. Quasi come il referendum sulla Brexit.