Dopo l’inaugurazione ufficiali svoltasi mercoledì a San Marino — dove è stata allestita la mostra Open Migration — stasera parte ufficialmente la seconda edizione del DIG, il festival del giornalismo investigativo di Riccione, tre giorni di workshop, performance, proiezioni, ma soprattutto, un’occasione importante per i progetti in attesa di finanziamento. Al centro del festival, infatti, ci sono i DIG Awards, divisi in cinque sezioni — Investigative, Long Reportage, Short Reportage, Digital, Data — più una sezione speciale di pitching dedicata ai progetti che riguardano l’Italia, intitolata Focus on Italy, che mette in palio 20mila euro per lo sviluppo della migliore idea presentata quest’anno.
Le novità, per l’Italia, sono due: la prima sono i soldi messi sul piatto, soldi che possono fare la differenza nello sviluppo e nella preproduzione di un’idea; il secondo è il processo di selezione, il pitch per l’appunto, un format molto poco italiano, ma su cui gli organizzatori del DIG credono molto.
«All’estero non funziona come in Italia», ci racconta Matteo Scanni, direttore di DIG. «In Italia fai una fatica bestiale per mettere insieme 10mila euro e con quelli devi farci tutto il tuo documentario. Nel resto del mondo il documentario è un considerato un fratello minore del cinema e ovviamente la produzione richiede un finanziamento decisamente più consistente. È questo che garantisce una qualità finale altissima».
Come funziona la fase di pre produzione?
Quando inizi a lavorare su un documentario funziona così: hai un’idea, a qualche storia tra le mani, sai delle cose ma non sai tutto di quello che vuoi raccontare. Ma prima di produrlo devi recuperare dei soldi per pre produrre la storia. Sono soldi veri, che investi per costruire il progetto e capire meglio il tuo progetto. Magari hai già fatto già un po’ di strada, hai capito quali sono i tuoi personaggi principali, hai cominciato magari a pensare al punto di vista, al taglio che puoi dare al tuo lavoro, però non hai avuto ancora modo di fare un viaggio per scoprire, che so, se un personaggio è disponibile a darti documenti, a rilasciare interviste a darti materiale. Questa fase si chiama sviluppo, ed è fondamentale per realizzare un documentario. È la fase precedente alla fase della produzione, quindi prima di mettersi a girare, il lavoro da fare è molto.
Il baricentro dei DIG Awards è il pitch, ci spieghi di cosa si tratta?
I pitch sono eventi organizzati da festival o televisioni o produttori. Si tratta di eventi a cui preiscriversi e, se si passa la prima selezione, si tratta di momenti in cui si ha l’occasione di presentare il proprio progetto davanti a personaggi del mondo del documentario, produttori, registi, giornalisti e via dicendo.
Da dove viene il format?
Il più importante evento di pitching al mondo si svolge ad Amsterdam nell’ambito del festival del documentario che si svolge ogni anno nella capitale olandese. È il più importante evento al mondo per quanto riguarda i documentari, e non soltanto per vederli, anche per produrli. È proprio quello il momento del pitch, un format che si fa anche in altri festival e altri luoghi e che è diffuso da anni per il settore dei documentari, ma che ancora non esisteva per il giornalismo investigativo.
Perché avete portato il format al DIG?
La nostra idea è stata quella di prendere il format del pitch, mettere in palio una cifra consistente a disposizione di giornalisti per la fase di sviluppo delle loro idee di inchiesta. E quindi selezioniamo lavori provenienti da tutta Europa, ma che riguardano il nostro paese. Da lì il titolo Focus on Italy. Questo è l’unico vincolo che noi diamo: la storia deve c’entrare con l’Italia, perché siamo italiani e il mondo del documentario e dell’inchiesta televisiva è depresso. L’obiettivo è sia far tornate il nostro paese al centro di progetti di inchiesta, sia aiutare i progetti italiani che solitamente fanno fatica a trovare soldi e a intercettare distributori internazionali, restando relegato, quando esiste, al nostro paese. È rarissimo che lavori italiani approdino al festival di Amsterdam, e ancora meno arrivano ad essere distribuiti su canali internazionali. Per esempio, non c’è nulla che viene prodotto in Italia che passa sulla BBC. Perché l’Italia non riesce a vendere a nessuno. A nessuno.
Qual è il problema dei giornalisti italiani: mancanza di idee, di professionalità o di soldi?
È soprattutto un problema di accesso al finanziamento. Non girano soldi. Le storie invece ci sono. Spesso ce ne sono molte di più che all’estero. Ho visto lavori di qualità straordinaria su canali svedesi o inglesi, ma che si basavano su storie che, qui da noi, sarebbero storielle. L’Italia, suo malgrado, è piena di storie gigantesche che andrebbero raccontate.
Perché avendo le storie non riusciamo a uscire dai confini italiani?
I prodotti italiani non hanno gli standard qualitativi richiesti, ma non perché i nostri autori sono meno bravi degli altri. È solo perché i loro progetti non sono adeguatamente finanziati. Non basta avere una buona idea. Bisogna avere soldi per fare cose della qualità necessaria per gli standard internazionali.
Qual è il vostro obiettivo?
L’obiettivo di portare i pitch al DIG era mettere in palio una cifra consistente — si parla di 20mila euro — che non fosse destinata alla produzione, ma alla pre produzione, allo sviluppo di un progetto. Perché quello a cui aspiriamo è che il vincitore di ogni edizione possa, a partire dalla vittoria al DIG Award, portare il proprio progetto ben strutturato in giro per il mondo per trovare i soldi veri, quelli per produrre, che sono molti, molti di più di 20mila euro. Oppure che riesca, qui al DIG, a intercettare l’interesse di qualche produttore. Perché non ci sono soltanto in palio dei soldi, ma c’è anche una giuria internazionale selezionati composta ad hoc. Abbiamo invitato molti soggetti che vengono dal mondo delle televisioni internazionali, gente realmente interessata alle idee. Ma quest’anno cìè anche un’altra novità: nel pubblico del pitch abbiamo invitato dei broadcaster e dei produttori. Quindi ci sono tre fronti: DIG che ci mette 20mila euro; la giuria, composta da addetti ai lavori, può interessarsi, oltre al vincitore anche ad altri progetti; poi, da ultimo, ci sono i broadcaster e addetti ai lavori che potrebbero comprare delle idee, cosa che è accaduta già nella prima edizione.
Cosa garantisce la riuscita del format?
Il format è molto rigoroso, non è una cosa all’italiana. Ogni partecipante ha a disposizione 7 minuti, non un secondo di più. Devi presentarlo in inglese e hai tre minuti in mezzo al pitch per mostrare un teaser per dare degli elementi in più alla tua esposizione dell’idea. Quando suona la campanella, hai finito il tempo. Tutto questo terminerà, durante al DIG, con una finale a Riccione tra i dieci progetti finalisti.
Quanti progetti hanno partecipato ai DIG Awards quest’anno?
Questa edizione ha visto partecipare, a tutti e cinque i bandi, circa 300 progetti. La cosa che ci fa molto piacere è stata notare, rispetto alla prima edizione dell’anno scorso, che la metà dei progetti presentati viene dall’estero, un buon sintomo. Il secondo dato è ancora migliore, perché i progetti presentati quest’anno sono di una qualità altissima, tutti i più grandi broadcaster internazionali hanno mandato qualche progetto, infine moltissimi progetti vengono da posti che non sospettavamo: dalla Palestina al Canada. Significa che abbiamo seminato bene, perché questi progetti valgono il doppio come peso specifico rispetto all’anno scorso.
Chi finanzia il bando?
La maggior parte dei soldi sono pubblici, vengono dal Comune di Riccione e dalla Regione Emilia Romagna. Speriamo nel futuro a coinvolgere fondazioni, perché la strada che vogliamo prendere deve portarci ad essere il più possibile autonomi, perché per la natura del festival, dedicato al giornalismo investigativo, crediamo che sia importante non essere legati mai a sponsor. La strada è quella delle fondazioni, ovvero una strada molto poco italiana. Non è facile, ma siamo convinti che sia la strada giusta.