E se il Pil non si fosse davvero fermato? E se tra due mesi ci trovassimo a commentare dati aggiornati molto diversi da quelli sul secondo trimestre dell’anno comunicati nelle stime premilinari dell’Istat? Non sono domande astratte, perché in passato questi dati hanno avuto correzioni anche molto forti. Per questo, avverte l’economista della Bocconi Tommaso Monacelli, sarebbe ora di uscire da un dibattito estivo su un dato che «non ci dice proprio niente» e di concentrarsi sui veri problemi strutturali del Paese. Che al primo posto vedono le «banche più inefficienti dell’Occidente» e a seguire la necessità di proseguire sul cammino delle riforme strutturali. Come quella della contrattazione decentrata, prevista dal Jobs Act francese e ignorata da quello italiano. In cambio del varo di questa riforma, l’Italia avrebbe buon gioco a chiedere all’Europa una flessibilità ben maggiore di quella che il governo si appresta a domandare a Bruxelles.
Professore, si aspettava una frenata del genere del Pil nel secondo trimestre?
Guardi, glielo dico onestamente: questi dati macroeconomici aggregati sono, soprattutto per l’Italia, ormai irrilevanti. Questo non vuol dire ovviamente che la situazione sia positiva. Ma quando leggo pagine di giornali riempite con i dati del Pil le salto.
Perché?
Perché non c’è la cognizione del fatto che questi dati sono rivisti nel corso del tempo. I dati aggregati macroeconomici sul Pil vengono revisionati anche con correzioni forti. Il dato potrebbe essere +0,3% o -0,1 per cento. Ma nessuno va poi a rivedere dopo 3-4 mesi i dati rivisti e la correzione degli errori. Anche se è il dato finale che conta.
Lo zero ha fatto impressione.
Lo zero è stato molto commentato perché fa impressione, ma l’oscillazione tra zero e 0,2 statisticamente non è significativa. Sono dati aggregati misurati in modo impreciso. Fanno molta notizia adesso perché è estate anche per i giornalisti. Trovo formidabile come ci si avviti a elencare le cause, dalla Brexit al terrorismo. Ma è impossibile oggi ragionare sulle cause. C’è poi un altro motivo per cui salto le pagine di giornali.
Quale?
Il dato aggregato in Italia ormai ha poco significato. Si dovrebbe vedere la disaggregazione geografica. È uno “zero” che dice veramente poco. L’Italia ci ha abituato da moltissimo tempo a una enorme differenza tra l’andamento di Nord, Centro e Sud.
«Lo zero è stato molto commentato perché fa impressione, ma l’oscillazione tra zero e 0,2 statisticamente non è significativa. Sono dati aggregati misurati in modo impreciso»
Le uniche indicazioni finora arrivate dall’Istat dicono che il dato è il risultato di un andamento positivo di servizi e agricoltura e negativo dell’industria. Questo è preoccupante?
In sé, no. Si potrebbe dire al contrario: i servizi sono la causa principale del fatto che l’Italia è un’economia così poco dinamica e produttiva. Se fosse così, potremmo dire che sarebbe un’inversione di tendenza. Potremmo dire che c’è una discesa statisticamente irrilevante nell’industria e un incremento dall’altra parte. Il problema dell’Italia è però fortemente di lungo periodo. E un dato di tendenza di cambiamento non c’è e c’è poco da fare su questo punto.
In che senso?
Torno al dato di prima. Dal punto di vista statistico è come se l’Italia da 20 anni avesse come dato registrato un +0,1% di crescita a trimestre. I giornali avrebbero ben poco da commentare. I dati sono diversi ma questo ha a che fare solo con l’incertezza statistica.
In questi giorni si sono state anche discussioni sul ruolo incertezza come freno all’economia. Ne ha parlato Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera.
Non vorrei commentare il mio collega Giavazzi, ma sappiamo dalla letteratura che gli effetti dell’incertezza sono immediati, perché portano le imprese e i consumatori a rimandare le spese, ma poi si invertono rapidamente. Non possiamo pensare che l’Italia sia sotto una cappa di incertezza da 20 anni. È molto arbitrario attribuire un dato come quello trimestrale sul Pil all’incertezza. Anzi, l’incertezza porta ai rimbalzi.
«Nel dibattito sulla produttività del Paese non si è messo abbastanza al centro il problema dell’inefficienza del credito. Se vogliamo vedere un elemento positivo del sistema bancario di adesso è che stiamo finalmente aprendo gli occhi. Questa è la sfida centrale del Paese, su cui però non vedo un grande impegno»
La poca rilevanza dell’incertezza vale anche per le banche? Siamo da mesi fermi in attesa di capire che fine faranno Mps e le altre.
Quello delle banche è uno dei fondamentali problemi di questo Paese ed è di lungo periodo. Viene da lontano e si è acuito fortemente con la crisi. Se mi dovesse chiedere qual è il fattore determinante che spiega la persistenza della crescita bassa dopo il 2008 in Italia, sicuramente direi che è il problema bancario. Non è però una cosa congiunturale, c’è da almeno sette anni. Ma io sono convinto, e ormai ci sono anche diversi studi, che l’inefficienza del mercato del credito sia un problema di 20-25 anni dell’Italia.
Fino a qualche anno fa il problema è stato negato da molti.
Che sia un fattore centrale è stato poco messo in evidenza negli anni scorsi rispetto alle solite considerazioni sul mercato del lavoro, dell’offerta dei servizi eccetera. Adesso ci stiamo rendendo conto che è un elemento che ha funzionato male in Italia negli ultimi 25 anni. Col 2008 è esploso come un bubbone. Non è sorprendente che un sistema bancario così inefficiente, quando arriva una recessione forte, accumuli un problema di Non performing loans tanto grave. Il problema degli Npl italiani, che è la causa fondamentale del perché l’Italia va così male da sette-otto anni, non è dovuto tanto alla recessione forte, ma al fatto che la recessione forte ha colpito un sistema bancario già fortemente inefficiente.
Sul piano industriale, si è ricordato agli imprenditori che ci sono state misure quali il superammortamento, il credito di imposta sull’acquisto dei macchinari, il Jobs Act. Tutto questo non doveva aumentare la produttività?
Penso che agli imprenditori si rimproveri soprattutto che continuino a essere sotto trend gli investimenti. Da questo punto di vista il problema centrale, per cui gli investimenti non ritornano in Italia è proprio il problema del credito.
Abbiamo però un problema di produttività.
La produttività è il Sacro Graal dell’economia italiana ed è anch’esso un problema che viene da lontano. Uno si rende conto delle inefficienze su come funziona la giustizia, il credito, il sistema scolastico, solo quando emergono, come in un processo carsico. Correggere questi aspetti richiede grande lungimiranza e pazienza. Non è chiedendo flessibilità all’Europa per un anno per rilanciare il Paese che cambieranno le cose. La cosa che mi preme dire è che nel dibattito sulla produttività del Paese non si è messo abbastanza al centro il problema dell’inefficienza del credito. Se vogliamo vedere un elemento positivo del sistema bancario di adesso è che stiamo finalmente aprendo gli occhi. Questa è la sfida centrale del Paese, su cui però non vedo un grande impegno. Vedo un impegno puntuale sul problema di una banca, ma non tanto sull’aspetto sistemico del sistema bancario generale.
«Non bisogna riporre una grande fiducia nelle manovre espansive. La flessibilità fiscale dovrebbe essere all’ordine del giorno dei Paesi, ma dovrebbe essere basata su dei contratti, in cui un Paese si impegna con la Commissione europea, chiedendo flessibilità, a mettere in campo riforme strutturali»
Se saranno confermati, i dati sul Pil avranno comunque un impatto sul rapporto deficit/Pil e debito/Pil. Mettiamoci nei panni del governo. Dovrà insistere su una manovra espansiva da 25 miliardi o cercare una via più difensiva?
Non bisogna riporre una grande fiducia in queste manovre espansive. La flessibilità fiscale dovrebbe essere all’ordine del giorno dei Paesi, ma dovrebbe essere basata su dei contratti, in cui un Paese si impegna con la Commissione europea, chiedendo flessibilità, a mettere in campo riforme strutturali. Da questo punto di vista sono stato abbastanza simpatetico dell’approccio che fino ad ora il nostro governo ha avuto: richiedere flessibilità a fronte di riforme come il Jobs Act. Penso che l’Italia abbia fatto giurisprudenza e che l’esempio vada seguito.
Dovrebbe diventare un pilastro dell’Europa?
Ho avuto discussioni anche con economisti come Olivier Blanchard su questo aspetto. Una delle riforme centrali di governance da attuare in Europa dovrebbe essere di questo tipo: permettere sforamenti anche del tetto del 3%, a fronte di un impegno solenne a fare determinate riforme strutturali. Se non si facessero, si perderebbe il patrimonio di credibilità in Europa.
Senza questi impegni ha senso per il governo fare la battaglia per la flessibilità?
Avere un po’ di flessibilità, ottenendo un rapporto deficit/Pil del 2,8% invece che del 2,2% cambierebbe pochissimo. Se invece l’Italia, con un contratto, si impegnasse a fare riforme strutturali, una manovra espansiva avrebbe un senso.
Il governo dovrebbe aumentare lo stimolo ai consumi, attraverso la quattordicesima ai pensionati che prendono meno di mille euro? Oppure è il caso di concentrare tutte le risorse sull’aumento della produttività delle imprese? Ad esempio defiscalizzando la contrattazione di secondo livello?
Probabilmente, avendo il governo già fatto delle misure come gli 80 euro, anch’io credo che una misura di competitività come la riduzione del cuneo fiscale sarebbe importante. La produttività riguarda invece un insieme di temi che vanno dalla giustizia all’istruzione e che non si risolve in una manovra. Però in tema di produttività sarebbe il caso di affrontare il tema di decentrare la contrattazione. Questo è un aspetto che è stato inserito nel Jobs Act francese e che noi non abbiamo fatto. Sarebbe invece una misura, molto sensibile dal punto di vista politico, ma che è un capitolo da iniziare.
«In tema di produttività sarebbe il caso di affrontare il tema di decentrare la contrattazione. Questo è un aspetto che è stato inserito nel Jobs Act francese e che noi non abbiamo fatto. Sarebbe invece una misura, molto sensibile dal punto di vista politico, ma che è un capitolo da iniziare»
Il governo Renzi ha esagerato con gli stimoli ai consumi, come gli 80 euro? Sono mance che non hanno portato benefici?
Ma no. C’è un problema persistente di domanda aggregata bassa e la misura degli 80 euro è stata utile. Se uno ritiene di giudicare l’efficacia degli 80 euro sulla base del fatto che non abbiamo avuto un boom economico, è intellettualmente disonesto. Misure del genere vanno valutate in maniera controfattuale: come sarebbe andata l’economia se non ci fosse stato l’intervento sugli 80 euro? Questo i commentatori politici ed economici non lo valutano. Non credo che il governo abbia esagerato, ma credo che non farebbe grande differenza.
Cosa farebbe invece differenza?
In un quadro di manovra di espansione della domanda aggregata, con magari più spesa pubblica e minori tasse, ci potrebbe essere uno sforamento oltre il 3%, ma in un quadro di credibilità fatta di un patto di cui parlavamo prima. Nel quadro di strettissimi margini di flessibilità che il governo si vuole prendere, dare più soldi ai pensionati o ridurre dei costi del lavoro non farebbe nessuna differenza. Scelga a caso lei una delle misure, metta in un urna tante palline e ne prenda una. Non farebbe alcuna differenza.
«Anche in caso di No al referendum, nel quadro anemico della crescita in Europa, l‘Italia non spiccherebbe in modo così drammatico. Il Qe della Bce andrebbe avanti, non credo che ci sarebbero grandi ripercussioni»
È impossibile non pensare al fatto che questa manovra sarà costruita in contemporanea alla campagna referendaria. Sarà influenzata da questo?
Quasi per definizione sarà influenzata, è una questione di ciclo politico. Poi purtroppo Renzi ha un po’ la tendenza a cedere a una blanda forma di populismo elettorale, per cui credo di sì. Detto questo, dal punto di vista della governance del Paese, penso che la riforma sia mediocre ma a mio avviso positiva.
Perché?
Ci sono riforme economiche messe in atto dal governo due anni fa che ancora non sono state attuate, questo ci fa capire l’irrilevanza del processo amministrativo e di attuazione delle misure in Italia. Questo è un problema gigantesco. Non è che il referendum risolva questo problema di efficacia, ma la migliora, seppur meno di quanto ci potremmo aspettare.
Pagheremo nei prossimi mesi la sfiducia dei mercati sul successo del quesito?
Certamente. Ma anche in caso di No al referendum, nel quadro anemico della crescita in Europa, l‘Italia non spiccherebbe in modo così drammatico. Il Qe della Bce andrebbe avanti, non credo che ci sarebbero grandi ripercussioni. In caso di un No reazioni immediate, di quelle pericolose, non credo ci saranno. Rimarrebbe il fatto che sarebbe interrotto un cammino seppur timido di governance di questo Paese e di stabilità. Dopo 20 anni in cui si sono succeduti governi che non hanno fatto niente, quantomeno da un paio d’anni in questo Paese si discute della bontà o meno di riforme specifiche. Si ritorna a una normalità. All’estero questo viene salutato come una novità positiva.
In caso di vittoria dei No rischiamo di avere un downgrading delle agenzie di rating tale da farci uscire dall’investment grade richiesto dal Qe?
Non credo. Non ha avuto un downgrading la Spagna, pur con la crisi di governo che l’ha interessata. Da questo punto di vista non sono preoccupato. Per come è il quadro di finanza pubblica e la politica della Bce non credo che ci saranno problemi seri, a meno che l’Italia si avvitasse in uno stallo eccessivo per la scelta su un eventuale nuovo governo.