Fotografare il cibo, la mania social dei Millennial che non si godono uno spaghetto

Secondo una stima del The Guardian, il 25% delle immagini che ci scambiamo su Internet documentano quel che mangiamo ogni giorno. Una modo che ha fatto nascere dei corsi ad hoc e che riempie gli archivi degli iPhone

Finirà che smetteremo di andare in quel ristorante con cucina di carne, e bistecche che fanno venire l’acquolina in senso letterale, perché “te l’ho detto che lì non ci vengo, con quell’illuminazione e i colori scombinati di tovaglie e tovaglioli la foto mi viene uno schifo”. Finirà che manderemo in avanscoperta la suocera con le vene varicose che si lamenta sempre che la vita sua è spolverare/cucinare/aspettare la morte in missione in qualche caletta greca, “tu vai verso febbraio, fai un’esplorazione di questi luoghi che ti ho elencato, fai le foto e poi me le mandi, così io le studio e capisco se sono adatte per agosto, non vorrei ritrovarmi con gli sfondi che hanno tutti, no?”.

Anche se la tech-trovata dell’estate è stata quella di non andare da nessuna parte, con serrande ermeticamente chiuse e derrate alimentari in appartamento in grado di sfamare il Lussemburgo per un semestre, per poi – grazie ad app furbette – farsi selfie con location finte più vere del vero, il problema rimane. Come siamo passati da un paio di serate l’anno sopportate malmostamente guardando viaggi di nozze sciorinati in forma di scomode diapositive (“uh la scimmia ti ha rubato la banana”, e giù le matte risate) a questa compulsione da reporter del crostino aperti H24, distributori di cibi e di immagini di terre lontane di cui a nessuno frega nulla tranne che all’autore, il tutto in una famelica, esagerata e un po’ insensata mostarda emozionale? Se la polpetta squisita non è fotogenica, insomma, ciao: te la preparerai nella penombra della cucina, quando sei sola in casa, senza guardarla fissa e senza farle nemmeno una foto perché anche se è una favola a mandarla giù, poverina è tanto cessa.

Come siamo passati da un paio di serate l’anno sopportate malmostamente guardando viaggi di nozze sciorinati in forma di scomode diapositive (“uh la scimmia ti ha rubato la banana”, e giù le matte risate) a questa compulsione da reporter del crostino aperti H24, distributori di cibi e di immagini di terre lontane di cui a nessuno frega nulla tranne che all’autore, il tutto in una famelica, esagerata e un po’ insensata mostarda emozionale?

Compulsione, ci prende e ci porta via. Ci sono quelli che l’antipasto è ancora nelle mani del cameriere che sta cercando di farlo planare sul tavolo e già strillano “non toccareee, non mangiareee che prima lo devo fotografare!” con toni acuti udibili anche dai cani giovani nel raggio di 20 km, poi dopo sfiancanti ricerche della migliore inquadratura (“quiche, dammi il profilo destro, che è più turgido…più ammiccante…meno ammiccante…un po’ di più…”) stringendosi nelle spalle chiosano con un modesto e intimidito “ma no, io me le tengo tutte nel cellulare, sono un bel ricordo, dai”. Salvo poi ritrovare un nanosecondo dopo la quaglia all’amaranto con la coscia confit in gel di melograno e la fontana di verdura glassata ascendente che occhieggiano su Facebook, Twitter, Instagram, siti dedicati al foodporn e anche su qualche blog della Nasa, nella confusione non sai mai cosa schiacci o cosa ritwitti. Laddove una volta c’erano i racconti esagerati e un po’ naif di pantagrueliche magnate e copiosissime bevute, sanguigni e con molti sensi a rapporto (spaghetti di scoglio che profumano di mare, pane tiepido sotto le dita, vino che blandisce la lingua e l’olfatto, mousse di cioccolato che si scioglie in bocca), ora c’è l’album sullo smartphone. Siete poi andati in quel posto? Com’era? Buono?. Si tira fuori la gallery fotografica, si fa ammirare com’è venuto bene il medaglione di barbabietole e riso basmati che son tanto fotogenici, “che poi peccato che era nuvolo sennò la barbabietola sai che bel riflesso che aveva?”.

Il cibo e le vacanze sono diventate degli status symbol? E allora immortaliamo l’attimo, fermiamo il momento, lo status symbol -si sa- non esiste se non è visto e condiviso: non in senso cristiano, ahinoi, ché nessuno ti offre mai due settimane a New York, ma in senso social, con caleidoscopi di immagini che sono un po’ come alcuni tipi di cani, mandano in estasi i proprietari e gli altri si sentono obbligati a dire ‘bello eh, che simpatico’ quando sperano che l’angelo della morte venga presto a prenderli.

Il problema è il digitale? La compulsione? I social network? I giovini che non danno il posto ai vecchi sul bus? E siamo a un punto di non ritorno? Davvero, sfogliando un iPhone quando ci sentiamo soli o tristarelli, la vista di una crostata di frutta di due anni prima, bella quasi come una modella con quei toni caldi della pasta e il contrasto scuro e pieno di bagliori della marmellata di lamponi, può aiutarci a stare meglio? O non sarà diventata una foto che “questa nemmeno mi ricordo cosa, dove, perché, ma l’avevo fatta io?”.

Il cibo e le vacanze sono diventate degli status symbol? E allora immortaliamo l’attimo, fermiamo il momento, lo status symbol -si sa- non esiste se non è visto e condiviso: non in senso cristiano, ahinoi, ché nessuno ti offre mai due settimane a New York, ma in senso social, con caleidoscopi di immagini

Forse sì, forse il ricordo o la consolazione disidratate sono una gran cosa. Eppure, se siamo davanti alla Tour Eiffel, e come poiane invasate saltelliamo per fotografarla, facendo poi foto uguali a quelle già scattate da miliardi di persone, dove sta l’emozione? Nella Tour Eiffel, nella foto, nello spippolamento forsennato per piazzarla su Instagram e averla talmente caricata di filtri che pare uno shuttle pronto a eiettare? Dopo avere pensato a quei 300 hashtag spiritosi che comprendono vette di comunicatività come #iofelice, #latoureiffel, #happy, #instalove (de che?) e avere finalmente pubblicato, la fruizione (del luogo, del cibo) è iniziata, è terminata, deve ancora cominciare? Se volete, abbiamo le pezze statistiche: il britannico Guardian ci dice che il 25% delle foto scambiate su internet documentano ciò che mangiamo ogni giorno, senza una ragione. Una sorta di diario gastronomico di cui mi sfugge la motivazione. Il 22% certifica imprese culinarie (dalle ricette alle uscite fuori casa). Il 16% serve a condividere un’occasione speciale. Il 12% consiste in tentativi di fare della “food art”. Il 10% celebra un’occasione familiare, e appena l’8% delle foto viene scattata con l’obiettivo di raccontare un ristorante (il che è un peccato, che lo storytelling andrebbe via come il pane, ma niente da fare).

Quando vivi un’esperienza e vuoi fotografare tutto, accade che mentre fotografi ti perdi una parte di esperienza vera vissuta: la svendi, la baratti con il fatto che potrai ricordarla e potrai mostrarla a qualcuno. Ne vale la pena? Probabilmente, se è un “buona la prima”, ci si può stare. Ma rendiamoci conto che ci sono delle food blogger che arrivano al ristorante con la reflex, il flash, l’ombrellino o la lightbox (una scatola bianca che ha solo 3 lati in cui inserire i mangiari da fotografare, che così al porro non gli si vedono le borse sotto gli occhi). Non vi parlerò dei corsi da seguire per fotografare al meglio il cibo (fioriscono ovunque), né dei mille trucchi per farlo venire bene in foto. Oltretutto se lo ami solo quando è in tiro, non è mica amore vero.

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Sappiate che uno dei mantra è “impossibile far uscire una bella foto da un piatto brutto”, e che “il polistirolo dà tanta luce”. Così tu stai lì, mesto, davanti a un piatto buono ma tanto brutto, poverino, e pensi come dar luce a quella cupezza intrinseca che ogni parmigiana di melanzane porta seco. Sai anche che la tua impresa sarà vana: un po’ di malinconia ti viene, anzi #instablues, per te, per il piatto brutto, per il fatto che per questo insieme angoscioso di cose nessuno ha ancora cenato e sono le 11 passate, e tua madre è lì accasciata su una parmigiana un po’ indisciplinata non abbastanza carina per la ribalta, e riluce di talmente tanto unto da fare l’effetto strobo. E tu non sai come renderla bella, e la povera parmigiana desidera solo essere sbranata e mettere fine alle sofferenze terrene che la vogliono mannequin, mentre tu ti affanni con brandelli di polistirolo dell’imballaggio della tv tentando di donarle luminosità.

Scorrendo qualche pagina di Google, troverete consigli sul food porn per “rendere belli i cibi brutti” o (doppio salto carpiato all’indietro) “fotografare cibi al tramonto”. Questa è la svolta: riuscire a non godersi né il cibo né il tramonto, che di per sé sarebbero bellissime cose. Riuscire a mantenere inalterati la libido del cibo e quella del viaggio, intersecandole con la libido da fotografatore/condivisore compulsivo, a me pare un’impresa difficile. Ma teniamo conto che io non sono Millenial (non so bene cosa voglia dire, ma fa sempre effetto). Finiremo per chiedere a Germi Disoia, lo chef vegano estremista di Maurizio Crozza che parla con le sue verdure e si consiglia con loro prima di cucinarle, di darci qualche dritta per ottimizzare: se il suo sedanorapa ad esempio si è svegliato bene e pare allegro, arriveremo con il cellulare sguainato, la nostra scatola di luce e una pioggia di polistirolo a fotografarlo. #instasedano #happyceleriac #gnamgnam.

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