Non sono ancora le otto del mattino dell’8 agosto del 1956, sessant’anni fa. Nella miniera di carbone di Bois du Cazier, a Marcinelle, Belgio, si lavora già da un pezzo. Intorno alle sette, 274 minatori scendono fino a oltre mille metri sotto terra, disponendosi nelle gallerie e nei cunicoli per estrarre il carbone. Ma solo 12 di loro ne usciranno vivi. Gli altri 262, tutti giovani, moriranno soffocati e carbonizzati per un incendio probabilmente provocato da un errore umano: 136 erano italiani, in gran parte abruzzesi, i «musi neri» (come venivano soprannominati i minatori per via della fuliggine sui visi) emigrati in Belgio per estrarre il carbone sognando una vita migliore. Tra i sopravvissuti, c’era Antonio Iannetta, molisano, che aveva il compito di ingabbiare il carbone negli ascensori della miniera. Secondo le ricostruzioni, fu lui a commettere l’errore che provocò il disastro, inserendo male nell’ascensore un carrello pieno di carbone.
Intorno alle 8 e dieci, il fumo nero cominciò a uscire dai pozzi. I familiari corsero verso le cancellate, dove i minatori appendevano i vestiti prima di calarsi nelle viscere della terra. I soccorsi arrivarono tardi. Non era il primo incidente in miniera. E le ricerche andarono avanti fino al 22 agosto. Mentre le giovani mogli e i figli attendevano notizie sostando giorno e notte oltre i cancelli. Finché arrivò la notizia che ormai era scontata: «Tutti cadaveri». «Notte di attesa, notte di immenso dolore: gente del Nord e del Sud, gente di ogni regione d’Italia: tutto il dramma della nostra emigrazione è spietatamente sintetizzato sul ciglio di questa strada», scrisse l’inviato del Corriere della sera a Marcinelle.
In tanti erano disposti a rischiare per guadagnare qualche soldo in più da mandare a casa. Come fanno oggi gli immigrati assunti in nero che salgono sulle impalcature senza parapetto, o quelli che raccolgono i pomodori per ore sotto il sole per pochi spiccioli e che vediamo camminare in questi giorni lungo il ciglio delle trafficate strade vacanziere del Sud Italia
L’Europa si era da poco lasciata alle spalle la seconda guerra mondiale. Nel 1946, dieci anni prima dell’incendio, l’Italia aveva firmato con il Belgio un protocollo che prevedeva il trasferimento di 50mila lavoratori sotto i 35 anni in cambio del carbone. Bruxelles chiedeva manodopera a basso costo disposta a scendere sotto terra, l’Italia non aveva materie prime ma aveva tante braccia povere pronte a tutto per costruirsi un avvenire: era l’accordo “minatori-carbone”, uno scambio tra uomini e merce. Da Nord a Sud, le strade italiane vennero tappezzate con i manifesti rosa che incitavano a partire per le miniere belghe in nome del progresso del Paese. Promettevano belle case per le famiglie, stipendi alti e una vita dignitosa. In fuga dalla povertà del secondo dopoguerra, in tanti non se lo fecero ripetere due volte. Migliaia di giovani italiani, con il miraggio di una vita migliore, partirono da ogni regione d’Italia verso le miniere belghe.
Ma il Belgio era tutt’altro che il paradiso. Gli immigrati italiani non erano visti di buon occhio. I belgi li chiamavano “macaronìs”. E fuori dai locali del distretto minerario di Charleroi i proprietari appendevano i cartelli: “ni chiens, ni italiens”, “né i cani, né gli italiani”.
E il viaggio, poi, somigliava più a una deportazione che a una fuga verso una vita migliore. I lavoratori italiani venivano prima selezionati lungo il percorso. Poi arrivavano in treno a Bruxelles, ma nello scalo merci, non nella stazione passeggeri. E sui camion sporchi che avevano appena scaricato il carbone venivano caricati e trasportati nei campi di concentramento ereditati dalla guerra. Non c’erano le belle case né il benessere promesso ad attenderli. Gli immigrati italiani e le loro famiglie erano ospitati nelle baracche dei prigionieri di guerra, sovraffollate, senza acqua ed elettricità, e con i bagni collettivi. Anche le condizioni di sicurezza sul lavoro erano tutt’altro che rosee, gli orari di lavoro massacranti, gli straordinari obbligatori, i diritti sindacali inesistenti. Ma in tanti erano disposti a rischiare per guadagnare qualche soldo in più da mandare a casa. Proprio come fanno oggi gli immigrati assunti in nero che salgono sulle impalcature senza parapetto, o quelli che raccolgono i pomodori per ore sotto il sole e che vediamo camminare in questi giorni lungo il ciglio delle trafficate strade vacanziere del Sud Italia.
Partiti dall’Italia per farsi una minuscola faticatissima fortuna e imprigionati per l’eternità dalla terra straniera che doveva dar loro, a costo di incredibili calvari, un modestissimo avvenire
«Partiti dall’Italia per farsi una minuscola faticatissima fortuna e imprigionati per l’eternità dalla terra straniera che doveva dar loro, a costo di incredibili calvari, un modestissimo avvenire», scrisse Dino Buzzati il 9 agosto del 1956 sul Corriere. Parole che sanno di attualità, ma raccontano la realtà di sessant’anni fa, quando i migranti eravamo noi. Le condizioni di vita erano talmente dure che in tanti decidevano di tornare in Italia. Anche se prima erano obbligati a lavorare almeno per un anno, pena l’arresto.
Dopo la tragedia di Marcinelle, in Belgio partì subito più di un’inchiesta. Tre anni dopo, i tecnici e gli ingegneri imputati di omicidio plurimo vennero assolti. Solo nel 1961 la Corte d’Appello di Bruxelles condannò a sei mesi il direttore dei lavori, mentre tutti gli altri vennero ritenuti innocenti. Il risultato è che per i giovani “musi neri” di Marcinelle non c’è ancora nessuna verità. Storie di sessant’anni fa in cui gli immigrati sfruttati che nessuno voleva eravamo noi. Da tenere a memoria per comprendere chi oggi arriva in Italia da altre parti del mondo.