Migranti, Giro: “Svegliati Europa, l’Italia è già pronta per agire”

Dalla creazione del fondo fiduciario per il continente nero al Migration Compact (proposta tutta italiana), i piani per fronteggiare i flussi migratori non mancano. Ora, però, servono i soldi e una maggiore consapevolezza da parte dei governi africani: «Stanno perdendo il loro futuro»

Di “piani” per affrontare la crisi dei migranti, la Ue e gli Stati membri sembrano esserne talmente pieni da non sapere quale scegliere. Finendo per lasciare tutto com’è. Dal sistema delle quote al ritornello dell’«aiutiamoli a casa loro», fino all’accordo con il “sultano” di Turchia Tayyip Erdogan che per molti osservatori sembra essere l’unica spiegazione per il mancato biasimo di quanto sta accadento al di là dello stretto del Bosforo. Anche l’Italia ha fatto la sua parte. Stavolta per l’Africa. Non solo con gli innumerevoli interventi della Marina militare al largo del Mediterraneo, ma proponendo un piano di aiuti che porta un nome inglese (stile Jobs Act): il Migration Compact. Fatto proprio dalla Ue durante il vertice fra i capi di stato e di governo che si è tenuto il 28 e 29 giugno, quello in cui si è parlato soprattutto degli esiti del voto inglese sulla Brexit, il progetto italiano ha tuttavia subìto diverse variazioni: «Attualmente manca interamente tutta una parte, quella sugli investimenti. Non si capisce perché i Paesi africani debbano accettare le richieste dell’Europa se non c’è per loro un vantaggio reale», afferma il viceministro degli esteri Mario Giro. Dopo una lunga esperienza nella Comunità di Sant’Egidio che lo ha portato a viaggiare in lungo e in largo per l’Africa, dal gennaio 2016 Giro ha preso il posto lasciato libero da Lapo Pistelli nella squadra del ministro Gentiloni. Un innesto che pesca all’interno della Farnesina, dato che l’attuale viceministro era già sottosegretario dal 2013 e da allora segue i temi della cooperazione internazionale. Compreso la proposta tutta italiana del Migration Compact.

La proposta originaria del Migration Compact metteva 8 miliardi di euro da qui al 2020. Un somma che nell’intezione dei proponenti avrebbe potuto innescare un effetto leva sul lungo periodo capace di mobilitare 65 miliardi. Ma solo 500 milioni sarebbero arrivati freschi, freschi dal Fondo europeo di sviluppo

Il testo originario, inviato dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi al presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker il 15 aprile scorso, conteneva tutta una serie di incentivi diretti a progetti di sviluppo infrastrutturale in cambio di una cooperazione alla gestione del flusso migratorio. Sul piatto, la proposta italiana metteva 8 miliardi di euro da qui al 2020. Un somma che nell’intezione dei proponenti avrebbe potuto innescare un effetto leva sul lungo periodo capace di mobilitare 65 miliardi. Chiaro, solo 500 milioni sarebbero arrivati freschi, freschi dal Fondo europeo di sviluppo. Il resto si sarebbe dovuto recuperare reindirizzando altri fondi di investimento già esistenti e da un meccanismo di finanziamento pubblico-privato. Liquidità necessaria se si pensa, come fa notare il viceministro Giro, «che attualmente il valore delle rimesse degli immigrati africani si ferma a mezzo miliardo di euro». Non solo, quello che è venuto meno in campo europeo è l’idea degli Eu-Africa bonds: strumenti finanziari che avrebbero facilitato l’accesso dei Paesi africani ai capitali europei in una prospettiva di medio-lungo periodo. «Insomma, mi sembra che ci troviamo davanti a un fondo de La Valletta rafforzato. Poco se consideriamo i 6 miliardi dati alla Turchia, di cui 400 milioni attualmente erogati».

A Malta, durante il summit dedicato alle migrazioni del novembre 2015, Ue e Paesi africani avevano già trovato un accordo per dar vita a un fondo fiduciario con una base di 1,8 miliardi di euro a cui si sarebbero aggiunte le integrazioni degli Stati membri e di altri donatori. Al momento, la somma disponibile si aggira sui 2,3 miliardi. In altre parole, “solo” 20 milioni per Paese africano. Il tutto per finanziare, attraverso le varie agenzie di sviluppo nazionale, quasi un centinaio di progetti mirati al miglioramento delle condizioni del continente nero. L’Italia, per esempio, ha già avviato un programma di inserimento socio-economico delle donne in Burkina Faso dal valore di 5,2 milioni di euro, mentre in Sudan ed Etiopia è impegnata nella gestione dei rifugiati per un totale di circa 50 milioni. In cambio, l’Europa richiede il rispetto della Convenzione di Cotonou siglata nel 2000 che punta all’eliminazione della povertà in cambio di una stabilità politica e sociale. Ad oggi, la cooperazione è stata sospesa 15 volte, l’ultima lo scorso marzo quando una commissione d’inchiesta aveva accertato il mancato rispetto dei diritti dell’uomo. Cosa che, tuttavia, non ha impedito all’Ue di concludere un accordo commerciale con la nazione africana a inizio luglio.

«Per adesso c’è una costruzione ancora troppo timida degli aiuti ai Paesi africani – afferma Giro – Se noi vogliamo veramente gestire insieme i flussi migratori dobbiamo dare qualcosa che vada a vantaggio degli investimenti. Qual è l’interesse di questi Paesi? Infrastrutture». Risposta quasi scontata se si pensa che l’attuale popolazione africana conta un miliardo di abitanti e nel giro dei prossimi trent’anni il continente si ritroverà con 700 milioni di persone in età lavorativa su un totale di 2,4 miliardi. Cifre che potrebbero non solo rafforzare la migrazione esterna, ma anche quella interna e di conseguenza innalzare i livelli di attenzione sulla sicurezza. «Per questo la proposta italiana è quella di cambiare paradigma: lavoriamo insieme. Una volta garantiti gli investimenti necessari, che siano volano di sviluppo, allora possiamo occuparci della questione sicurezza. Perché il terrorismo minaccia tanto loro quanto noi. Poi possiamo affrontare la gestione dei flussi. Insomma, mi spiega lei per quale motivo un Paese africano, con poche risorse e pochi mezzi dovrebbe mettersi a rincorrere i migranti e rifugiati che transitano nel loro territorio?».

«La proposta italiana è quella di cambiare paradigma: lavoriamo insieme. Una volta garantiti gli investimenti necessari, che siano volano di sviluppo, allora possiamo occuparci della questione sicurezza. Perché il terrorismo minaccia tanto loro quanto noi. E se dovessi fare un appunto ai dirigenti nazionali africani è proprio questo: devono interrogarsi sul fallimento che le innumerevoli partenze e le tante morti in mare rappresentano per il loro continente»

Una posizione che tenta di disinnescare le accuse delle ong che, come nel caso della Turchia, vedono nel Migration Compact uno strumento per esternalizzare la questione sicurezza. Ma anche un atteggiamento che punta a consapevolizzare l’intero continente africano sulla perdita che potrebbe derivare dall’abbandono in massa della propria terra da parte di chi non riesce a trovare uno sbocco professionale e occupazionale in patria. «Per l’Africa sarebbe una perdita secca. E se dovessi fare un appunto ai dirigenti nazionali africani è proprio questo: devono interrogarsi sul fallimento che le innumerevoli partenze e le tante morti in mare rappresentano per il loro continente». Per quanto riguarda l’Europa, invece? «Manca di coraggio. L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, ha fatto un gran lavoro. Ma la Commissione è sembrata un po’ sorda».

Ad alzare il volume della discussione potrebbe essere proprio l’Italia che nel 2017 si prepara alla ribalta internazionale su due fronti: come membro non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e come organizzatore del G7 che si terrà in Sicilia. «Continueremo la nostra battaglia sul tema dell’immigrazione. Siamo certi che si debba risolvere innanzitutto a livello europeo. Anche se la vera sfida, per il nostro Paese, è dotarsi di una vera politica d’integrazione», conclude il viceministro Giro.

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