In principio è la fragilità. Una condizione spesso negata, nascosta, a volte dimenticata. Troppo contigua alla malattia (spesso ne viene causata) o all’inferiorità sociale. Ma quando la si riconosce, allora diventa il punto di partenza per parabole di successo, verso vette artistiche o iniziative di coesione sociale. È la tesi, in poche parole, di Elogio della Fragilità (Mimesis, 12 euro) libro di Roberto Gramiccia, medico e critico d’arte. «Un volume breve, ma dal contenuto intenso», racconta l’autore, «che riassume le mie due esperienze, quella nell’arte e quella della medicina. Con un tratto – importante – che è la politica».
L’impianto teorico è chiaro: tutti siamo fragili. «Ma è una condizione duplice: la fragilità è comune a tutti perché l’uomo è nato ed è mortale, è destinato alla fine. È fragile perché è schiavo degli eventi del destino». E poi c’è «una fragilità sociale, che non riguarda tutti allo stesso modo, ma distingue a seconda dei privilegi». Il punto importante per, è un altro: la fragilità non deve essere percepita come qualcosa di «negativo», ma «come il presupposto per la reazione». E cioè il primo passo per la creazione di grandi opere artistiche, oppure come la premessa per una risposta collettiva contro sfruttamento e privazione dei diritti. È, insomma, la condizione più felice per la rinascita.
«È così, ma il mercato ora prevale perché è diventato il fine della produzione artistica, non il suo mezzo. Mercato e tecnologia sono dei mezzi per l’uomo, non dei fini. E questo va compreso»
Ad esempio, la creazione artistica: «Sono convinto che l’arte nasca dall’esigenza, a mio modo di vedere primordiale, di dare una risposta alla fragilità individuale, e a tutti i limiti dell’esistenza». È nell’essere instabile, insicura, incerta che l’arte definisce la sua portata. O meglio: definiva. Le cose, negli ultimi anni, sono cambiate: «Il problema dell’arte contemporanea è che l’ingresso del profitto, o meglio, del predominio del profitto, ha cancellato questo legame». E ha, di conseguenza, «imposto un altro criterio: quello del mercato». L’essenza della produzione artistica viene smantellata, al suo posto si impone la sua nuova natura di merce, che – per forza – smarrisce la fragilità, cioè la matrice originaria della creazione.
Certo, il mercato è sempre esistito. Giotto lavorava e guadagnava su commissione e, dopo diversi anni di attività, era divetntato una vera e propria impresa. «È così, ma il mercato ora prevale perché è diventato il fine della produzione artistica, non il suo mezzo. Mercato e tecnologia sono dei mezzi per l’uomo, non dei fini. E questo va compreso».
Oltre all’arte, la fragilità è la miccia del pensiero, sia individuale che collettivo: «Questo libro non è solo un elogio, ma è una critica all’approccio di dominio». La volontà di potenza, di matrice nicciana, «non riassume la complessità della questione, e va verso una direzione sbagliata, perché è superomistica». Capire la fragilità, anche come motore immobile del genio – si pensi a Leopardi, o a Gramsci, entrambi malatissimi (la stessa malattia) ed entrambi spinti, per rabbia e reazione, allo studio e alla teoria – significa accogliere il male. È dentro di noi, è con noi, ci devasta e ci indebolisce. Ma vederlo e comprenderlo significa riaprirsi alle possibilità: possono essere rivoluzionarie (non mancano pagine dedicate alle rivolte degli anni ’60) o individuali (e altrettante pagine sono dedicate alla creatività dell’artista malato). «Ma possono essere anche obiettivi e traguardi quotidiani, raggiunti comunque, con una consapevolezza diversa». Quella della precarietà, dell’instabilità. Cioè, della fragilità, che riguarda tutti.