Torino. Facoltà di Economia. Elsa Fornero riceve gli studenti in un ufficio lungo e stretto. Gli armadi di metallo e vetro sono stipati di libri. Uno spazio anonimo non diverso da quello di ogni altra università pubblica italiana, non fosse per la musica classica che affiora quasi impercettibile dalle casse del computer. Quando si pensa al governo tecnico di Mario Monti, messo in servizio dal presidente Giorgio Napolitano il 16 novembre 2011, prima del nome di chi ne era a capo viene subito alla mente quello di questa donna piemontese minuta chiamata a fare il ministro del Lavoro e a firmare in venti giorni una dolorosa riforma delle pensioni contro cui ancora oggi monta il risentimento popolare. Cinque anni fa, proprio di questi tempi, Elsa Fornero assumeva un ruolo politico che fatalmente le resterà cucito addosso, malgrado sia stata fra i pochi di quell’esperienza a tornare subito alla sua vita di sempre.
«Gran parte del mondo politico ha come rimosso il proprio appoggio al governo Monti, in parte per vigliaccheria, in parte per opportunismo», risponde l’ex ministro in questa intervista a Linkiesta.it cinque anni dopo quella stagione di emergenza. Allora i tecnici furono chiamati dai principali partiti (Pdl e Pd) per salvarsi la faccia nel pieno di una crisi finanziaria, anche se la Fornero usa altri termini: «Era come se i partiti fossero disposti a sostenerci soltanto per quei provvedimenti impopolari, da loro stessi ritenuti necessari, per i quali non volevano esporsi con gli elettori». Poi tutto ( o quasi) è tornato a girare come prima. Ecco perché non reggono le ipotesi di complotto per far cadere il governo di Silvio Berlusconi. Del resto, pur vituperate, le riforme impopolari sono ancora lì, osserva l’ex ministro che guarda con interesse ma anche una certa prudenza alle mosse dell’attuale premier Matteo Renzi in materia di pensioni. Fino a valutare un voto positivo al referendum costituzionale. «È grazie all’azione del governo Monti che oggi non si discute in situazione di emergenza. Purché – avverte la Fornero – non si torni a caricare di debiti le generazioni future».
Professoressa Fornero, che eredità è rimasta del governo Monti?
In estrema sintesi, si può dire che il governo Renzi non avrebbe potuto presentare una legge di bilancio espansiva, com’è quella per il 2017, senza le riforme del governo Monti. Questo vale soprattutto per la riforma previdenziale che è considerata essenziale per la sostenibilità finanziaria del nostro debito pubblico, come sanno anche coloro che non perdono occasione per criticarla. Pressoché tutti i documenti dell’Ue che parlano dell’Italia ne raccomandano il mantenimento per la stabilità a lungo termine che assicura ai nostri conti pubblici. Questa stabilità è un valore per gli italiani, non un regalo all’Europa o alle sue banche. In secondo luogo, credo sia anche corretto affermare che la nostra riforma del mercato del lavoro ha aperto la strada al Jobs Act. La prima modifica dell’articolo 18 fu fatta dal nostro governo e ritengo anzi che il nostro testo fosse socialmente più accettabile di quello, più duro per i lavoratori, del governo Renzi: non ho mai condiviso l’idea che si dovesse cancellare l’articolo 18 per rimediare alla (peraltro non immotivata) convinzione di un atteggiamento dei giudici del lavoro pregiudizialmente favorevole ai lavoratori.Tra i provvedimenti che rimangono va sicuramente annoverata anche la legge Severino. La sua domanda, però, è chiaramente più vasta. Occorre ricordare quindi anche quello che non è rimasto.
Ripartiamo allora da questo.
Nell’opinione pubblica c’era molta attesa, vorrei dire speranza, per un governo che potesse dare un nuovo “senso di direzione” al paese, interrompendo l’inazione di una classe politica in grave smarrimento e ormai incapace di prendere decisioni anche – e forse soprattutto – di fronte a problemi di una gravità eccezionale. Questo smarrimento andava ben al di là delle questioni strettamente finanziarie. La risposta a quell’attesa però purtroppo non si è verificata.
«La prima modifica dell’articolo 18 fu fatta dal nostro governo e ritengo anzi che il nostro testo fosse socialmente più accettabile di quello, più duro per i lavoratori, del governo Renzi: non ho mai condiviso l’idea che si dovesse cancellare l’articolo 18»
È un punto importante, quest’ultimo, per capire i frutti di quella stagione. Quasi tutti coloro che allora vi sostennero in Parlamento ormai tendono o a negare quell’esperienza o a darvi tutte le colpe dei problemi sociali.
In effetti, gran parte del mondo politico ha come rimosso il proprio appoggio al governo Monti, in parte per vigliaccheria, in parte per opportunismo. Non c’è da stupirsene, certo. Se interpretiamo il ruolo della politica come ricerca di consenso, ben pochi saranno infatti portati a riconoscere che qualcun altro abbia fatto qualcosa di buono, o anche solo di necessario. Dopo l’esperienza del governo tecnico, i partiti dovevano ri-legittimarsi agli occhi degli elettori e non avevano quindi alcun interesse a difendere il nostro lavoro, se non altro riconoscendone la necessità. È mancata quella coesione che, forse con una certa ingenuità, mi sarei aspettata e che avrebbe potuto indurli a sostenere: ”bene, avete fatto il vostro lavoro, ora tocca a noi proseguire, anche migliorando le vostre riforme”. Vede, io non ho mai pensato che la politica la debbano fare i tecnici, la fanno i partiti, che sono anche il canale di trasmissione dell’azione di governo verso i cittadini. Se le riforme non sono spiegate nel modo corretto, finiscono per essere rifiutate dai cittadini ben al di là del loro merito specifico, come fu per le riforme della previdenza e del lavoro del nostro governo.Ci sono state resistenze anche dentro il governo? Voglio dire, nemmeno un anno e mezzo dopo la vostra nomina, lo stesso premier Monti si è candidato alle elezioni: questo quanto ha pesato sulla percezione dell’eredità di quel governo?
Ho detto anche in altre occasioni che il periodo per me peggiore è stato quello in cui io subivo gli attacchi di tutti senza poter rispondere perché ero un ministro tecnico a termine, senza alcun partito o sindacato alle spalle e con lo stesso presidente del Consiglio, entrato in campagna elettorale con un proprio partito, esitante a difendere e a valorizzare le nostre riforme in quanto impopolari. È poi sicuramente vero che il nostro non era un governo formato da soli tecnici. Anche tra di noi c’erano diverse sensibilità e vicinanze politiche. Ed è chiaro che, nel momento in cui si spezzò l’unità di intenti che aveva all’inizio caratterizzato i due principali partiti che ci sostenevano, subentrarono riposizionamenti, distinguo e resistenze.Quali riforme sono state bloccate da queste resistenze?
Il nostro governo aveva un espresso mandato di fare alcune riforme in ambito economico-finanziario, specificamente richieste dalla lettera della Bce nell’agosto 2011, con l’approssimarsi della crisi finanziaria. Non era però un governo “di scopo” e avrebbe perciò potuto esercitare, compatibilmente con gli strettissimi vincoli finanziari, un’azione riformatrice a tutto campo. Dopo le prime misure, e con l’economia che mostrava segni di peggioramento, l’appoggio dei partiti venne però progressivamente a mancare e ogni volta che si entrava in un campo non strettamente economico le difficoltà aumentavano rapidamente. Io stessa, come ministro delle Pari opportunità, mi sentii accusare varie volte di voler travalicare i compiti assegnati al nostro governo. Ogni mia mossa su questo terreno – come la firma a Strasburgo, della quale sono orgogliosa, della Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere – mi ha attirato attacchi feroci e l’accusa di voler far cadere il governo. Mi dicevano, per esempio, che il tema delle unioni civili non era da governo tecnico. Era come se i partiti fossero disposti a sostenerci soltanto però per quei provvedimenti impopolari, da loro stessi ritenuti necessari, per i quali non volevano esporsi con gli elettori. I temi più propriamente politici, invece, erano considerati terreno esclusivo di un governo politico. Addentrarvisi faceva sorgere l’accusa di “complotto”.Questo del “complotto” è un altro tema di cui ancora oggi la politica italiana sconta gli effetti. I più strenui difensori di Berlusconi ritengono che la nomina di Monti fu un’operazione contro il loro leader. Ma anche studiosi come Giulio Sapelli, che abbiamo interpellato di recente, parlano di manovre internazionali nello stesso senso. Mi sembra di capire che lei non condivida queste letture.
Guardi, rifletterò ancora la mia ingenuità (anche se preferisco chiamarla assenza di cinismo) ma la invito alla seguente riflessione. Noi siamo parte dell’Unione Europea, abbiamo sottoscritto trattati e assunto impegni. Far parte di un’unione non vuol dire essere sempre condiscendenti, ma sicuramente implica dei doveri. Che il nostro modo di condurre la politica economica potesse a mettere a repentaglio l’esistenza dell’euro e magari della stessa Ue – perché l’eventuale default di un debito pubblico delle dimensioni di quello italiano non avrebbe certo lasciato indenne l’euro, e molti scommettevano proprio su questo esito – non poteva non suscitare le preoccupazioni dei nostri partner europei. E non mi sembra che queste legittime preoccupazioni possano definirsi un complotto. Il punto importante è che nel 2011 i partiti non chiesero le elezioni anticipate e furono tutto sommato ben felici di accogliere la proposta del presidente Napolitano di un governo tecnico. Personalmente, ricordo i complimenti che mi fecero in tanti, a partire proprio da Berlusconi, di quelli che oggi parlano male della mia riforma: dicevano che avevo avuto coraggio e riconoscevano che loro non avrebbero potuto andare di fronte agli elettori a rappresentare la pericolosità della situazione italiana e a spiegare l’inevitabilità di qualche sacrificio. La politica avrebbe dovuto aiutarci a trasmettere questo messaggio ai cittadini; invece ha tirato il sasso per poi nascondere la mano e presentare il tutto in termini di complotto e di austerità non necessaria.Quindi una delega di responsabilità in attesa delle elezioni?
Assolutamente sì. Se, per esempio, il Pd avesse chiesto al presidente della Repubblica di sciogliere le Camere e andare in elezioni, difficilmente il presidente Napolitano avrebbe potuto rifiutare. Ma il Pd sapeva bene che nel caso in cui avesse vinto le elezioni, avrebbe dovuto fare le stesse scelte dolorose che noi siamo poi stati chiamati a compiere e spiegarle ai suoi elettori. Non faccio di tutta l’erba un fascio, sia chiaro, e ho sempre riconosciuto l’onestà intellettuale di Pierluigi Bersani, che non ha mai cavalcato la protesta. Molti nel suo partito hanno invece preferito unirsi a quell’esercizio di deformazione della realtà che chiamerei di vigliaccheria collettiva e che ha consentito, nel silenzio pressoché generale, a individui come Matteo Salvini di attribuire a me personalmente la colpa di tutti i mali del paese e iniziative squadriste che dimostrano di quanto si è abbassato il livello della politica.Torniamo appunto al centrodestra, che ha sempre stigmatizzato l’atteggiamento di Napolitano, che aveva lavorato alla nomina di Monti ben prima della caduta del loro governo…
Ma Berlusconi aveva un’arma formidabile per rimanere al governo. Ed era quella di governare. Le risulta che quel governo, in tutto il periodo in cui la crisi si stava addensando, abbia dato risposte adeguate? Berlusconi era il capo del governo, poteva dimostrare di essere non già il problema, ma la soluzione. Il governo non glielo hanno tolto per eccesso di attivismo: il governo Berlusconi è finito per l’incapacità di uscire dallo stallo nel quale la litigiosità dei suoi ministri l’aveva cacciato, in una situazione in cui il mondo domandava all’Italia di fare delle scelte. Questo lei lo chiama complotto?Finora abbiamo però parlato dei partiti. A livello popolare ancora oggi vengono organizzati scioperi contro la sua riforma delle pensioni. Ci sono molte persone che si sentono tradite dallo Stato per quella riforma. Dicono: la nostra generazione ha firmato per 35/40 anni di lavoro poi quasi arrivati alla fine lo Stato si è rimangiato gli impegni e ci ha abbandonati. Era davvero inevitabile?
La riforma era inevitabile. Se ci riportiamo al periodo precedente, tutti i documenti, tutti i media chiedevano al governo un’azione riformatrice e tra le riforme indicate sempre in cima all’elenco c’era quella delle pensioni. Si ricorda quante lamentele sulle pensioni di anzianità? ‘Un furto a danno dei lavoratori’, tuonava Franco Modigliani. Solo che intervenire era impopolare e le riforme precedenti avevano infatti scelto percorsi di insostenibile gradualità. Nessuna riforma nasce perfetta, meno che mai una riforma preparata in emergenza: anche quella riforma era migliorabile, ma ci hanno messo cinque anni a fare qualche miglioramento necessario, un’occasione mancata. Nel frattempo l’hanno usata, finanziariamente e politicamente. Questi cinque anni sono trascorsi puntando il dito contro il ministro, ma lasciando la riforma sostanzialmente inalterata. Lei però parlava di patto fra i cittadini e lo Stato.Sì.
Bene, questo patto con lo Stato però coinvolge altre persone: non si può promettere a qualcuno qualcosa che paga qualcun altro che non è intervenuto nel patto. Con quelle promesse erano stati ingannati i giovani, si era trasformato il contratto tra le generazioni in un meccanismo per addossare oneri a quelle giovani e future, rendendo quel contratto fra generazioni insostenibile, perché caricava troppi oneri sulle generazioni giovani e future. La riforma doveva raddrizzare quel patto, renderlo sostenibile e meno iniquo. Credo che se questo fosse stato spiegato bene, e nel frattempo si fossero introdotti anche quegli aggiustamenti sempre necessari in un provvedimento legislativo di tale portata, gli italiani avrebbero capito e anche sofferto meno.La riforma previdenziale fu scritta tutta da lei o fu un lavoro collegiale?
Fu sostanzialmente gestita dal ministero del Lavoro con una forte collaborazione con il Tesoro.Il ministro allora era il presidente Monti ad interim.
Sì, ma io parlo della struttura tecnica del Tesoro, perché è il Tesoro che ha il controllo dei conti pubblici. Il ministero del Lavoro dipende dall’Inps per i dati sui lavoratori e sulle loro carriere e dal Tesoro per la valutazione delle conseguenze. Ed è dal Tesoro che a me veniva sempre detto: “non basta ancora”… Alla prima riunione di governo, il 16 novembre 2011 (dopo la richiesta di entrare a far parte del governo alle 9 della sera prima) mi fu detto di preparare la riforma delle pensioni. Chiesi: quanto tempo ho? La risposta fu: due settimane, al massimo venti giorni.«Ho sempre riconosciuto l’onestà intellettuale di Pierluigi Bersani, che non ha mai cavalcato la protesta. Molti nel suo partito hanno invece preferito unirsi a quell’esercizio di deformazione della realtà che chiamerei di vigliaccheria collettiva e che ha consentito, nel silenzio pressoché generale, a individui come Matteo Salvini di attribuire a me personalmente la colpa di tutti i mali del Paese»
C’era un’urgenza che vi dava di fatto carta bianca a fare qualsiasi cosa in tempi impensabili per la politica italiana. Quello che vi viene contestato da più parti è di non aver sfruttato quel contesto anche per favorire la crescita di un’economia sostanzialmente ancora oggi ferma.
La crescita si fa con investimenti. E gli investimenti si fanno in un ambiente favorevole: le riforme ne erano un presupposto. Guardi che io ho presentato anche la riforma del mercato del lavoro, che doveva essere un complemento di quella delle pensioni. C’era un disegno. Quella riforma aveva come obiettivi dichiarati la realizzazione di un mercato del lavoro inclusivo – che superasse le attuali segmentazioni e le marginalità, che tendono a penalizzare duramente le donne, i giovani e i lavoratori sopra i 50 e 55 anni – e dinamico. Però le faccio notare che, proprio per l’urgenza della situazione, la riforma delle pensioni fu portata in Parlamento con decreto e sottoposta a fiducia, mentre quella del lavoro fu presentata, su esplicita richiesta del presidente Napolitano, sotto forma di disegno di legge dopo un dialogo con le parti sociali che fu molto difficile, anche perché chiaramente i sindacati cercavano di prendersi la rivincita dopo la riforma delle pensioni.Facciamo una sintesi: se non aveste fatto questi interventi che ancora vi contestano che cosa sarebbe successo in Italia in quei mesi?
Mi hanno sempre insegnato che la storia non si fa con i se.Però avevate quel mandato preciso di cui parlava prima, che cosa temevate?
Non so se fosse un’esagerazione o no, ma posso dirle che in quei venti giorni la paura era quella di un default finanziario, di non riuscire a trovare finanziamenti nelle aste di rinnovo del debito pubblico. Se il mercato non sottoscrive altri Bot e Btp, in sostituzione di quelli in scadenza, non sai come pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici, le pensioni, i fornitori. Non so se la nostra percezione del livello di gravità fosse esagerata ma non avevamo altre informazioni e il livello dello spread continuava a salire, giorno dopo giorno. Chiaramente la risposta non poteva essere quella tradizionale: facciamo oggi le riforme ma le applicheranno fra dieci, venti o trent’anni facendole pagare alle generazioni future. La risposta doveva essere credibile e perché lo fosse doveva incidere subito sulla spesa e risultare all’altezza della gravità della situazione. Ho avuto dei momenti molto difficili in quei venti giorni, proprio perché sapevo che stavamo chiedendo delle cose difficili, dei sacrifici importanti agli italiani. Ma lei immagina che avremmo potuto alzare la spesa pubblica per far ripartire l’economia?Arriviamo ai giorni nostri. Cinque anni dopo la politica discute più o meno degli stessi temi di allora…
…e con un debito pubblico ancora più elevato, possiamo dire che se oggi non si discute in condizioni di emergenza è grazie all’azione del governo Monti, oltre che del governatore della Bce Draghi (una foto che la ritrae con Draghi è l’unica immagine della sua vita pubblica che Elsa Fornero tiene nel suo ufficio, NdA).«Personalmente, ricordo i complimenti che mi fecero in tanti, a partire proprio da Berlusconi, di quelli che oggi parlano male della mia riforma: dicevano che avevo avuto coraggio e riconoscevano che loro non avrebbero potuto andare di fronte agli elettori a rappresentare la pericolosità della situazione italiana e a spiegare l’inevitabilità di qualche sacrificio. La politica avrebbe dovuto aiutarci a trasmettere questo messaggio ai cittadini; invece ha tirato il sasso per poi nascondere la mano e presentare il tutto in termini di complotto e di austerità non necessaria»
Ecco: che cosa è successo dopo la fine del vostro governo? La politica ha ricominciato a rinviare le decisioni?
In parte, ma non completamente. Ho cercato molto di riflettere sul senso della parola “riforme”. Le riforme non consistono certo nella semplice scrittura di articoli di legge e nella loro approvazione parlamentare. Per avere effetti devono mettere in moto un cambiamento collettivo, prima di mentalità e poi di comportamenti. Le nostre difficoltà nel 2011 non dipendevano solo dalla crisi finanziaria iniziata nel 2008, dipendevano anche dal fatto che nei vent’anni precedenti avevamo avuto tassi di crescita più bassi di quelli di altri paesi o addirittura negativi. Era in qualche modo un declino che i governi cercavano di nascondere. Noi siamo stati chiamati per mettere in piedi questo meccanismo di cambiamento profondo, sapendo che i frutti non sarebbero stati ritenuti merito del nostro governo, anche se non pensavamo che ci fosse attribuita la colpa del peggioramento precedente al nostro insediamento. Detto questo, malgrado io abbia difficoltà, anche per motivi generazionali, a sentirmi in sintonia con l’attuale governo, penso che ci sia una genuina volontà di cambiare. E questo credo sia un obiettivo condivisibile, perché il paese deve finalmente trovare quel senso di direzione che non esiste ancora compiutamente e che ci deve portare a essere più forti in Europa, più competitivi e più aperti alle sfide del mondo, come quella dei rifugiati e dei migranti.Come giudica gli interventi sulle pensioni annunciati dal governo Renzi: un ripensamento o un miglioramento?
Alcune cose sono positive, come per esempio la flessibilità data a lavoratori in condizioni disagiate, a cominciare dai disoccupati. Che questi lavoratori possano avere un anticipo pensionistico, senza che ne debbano sostenere direttamente i costi, mi sembra un obiettivo socialmente condivisibile. Si tratta però di vedere quale applicazione pratica verrà data alle norme. Il punto è che quanto più allarghiamo l’ambito della cosiddetta “Ape sociale”, tanto più rischiamo di caricare di nuovi debiti le generazioni future. E questo significa riprendere l’antico vizio di farci belli agli occhi degli elettori facendone sopportare gli oneri a quelli che ancora non votano o sono comunque una netta minoranza. Altre misure, come la quattordicesima mensilità per i pensionati sono più discutibili, perché possono finire per dare risorse a chi non ne ha bisogno, e sempre a debito. Questo atteggiamento in Europa non piace. Ma, attenzione, non ci dobbiamo preoccupare dell’Europa, ci dobbiamo preoccupare di noi stessi, perché abbiamo già un debito troppo elevato per farne dell’altro finanziando la spesa corrente.In un’intervista che ha fatto molto discutere, il presidente Monti ha detto che voterà no al referendum più che per il merito della riforma costituzionale per il fatto che si è tornati a usare la manovra economica per cercare il consenso. Lo condivide?
Che il governo stia cercando consenso con le misure che ha inserito nella legge di bilancio, mi sembra più che ovvio. Quanto al referendum, io non sono una costituzionalista, ho cercato di documentarmi e di vedere le motivazioni a favore del sì e del no. E su queste basi voterò. Il mio è un orientamento, sia chiaro, non è una dichiarazione di voto: per ora sono orientata a votare sì, anche se non è appunto un sì definitivo. Insieme ad aspetti positivi, la riforma mi pare oggettivamente mal scritta e contraddittoria. Ma penso anche che non cambiare sia peggio.Dopo aver fatto questo lungo discorso, partito con la crisi del 2011 e arrivato alle aspettative ancora insoddisfatte del 2016, chiudo con una domanda più personale. Lei, dopo l’esperienza di ministro, è tornata in università e alla sua vita: come si sente a essere la persona più negativamente associata a quel governo, mentre tutte le altre o sono state dimenticate o hanno avuto qualcosa dalla politica?
Sono arrivata alla politica per caso, richiesta di prendere una decisione nel giro di un’ora e insediata come ministro meno di ventiquattr’ore dopo. Essere tornata al mio lavoro, con la fortuna di essere spesso invitata all’estero a parlare del mio paese con il dovuto distacco, mi ha aiutata tantissimo. Diciamo che quello che mi ha permesso di vivere senza ammalarmi è la mia coscienza, il fatto che io posso dire, guardando chiunque negli occhi, che non c’è mai stato un momento nei miei processi decisionali in cui al centro delle mie preoccupazioni non ci fosse il paese. E questo è ciò che un ministro deve fare.