È uscito da una settimana, ma è già uno dei casi editoriali dell’anno. Si intitola Le otto montagne, l’ha scritto Paolo Cognetti, l’ha pubblicato Einaudi e, prima ancora di essere pubblicato in Italia, all’ultima Fiera di Francoforte ha trovato acquirenti in 30 paesi del mondo: dalla Francia alla Cina, dagli Stati Uniti alla Russia, dal Brasile all’Albania. Per un romanzo italiano, per di più di un autore che le etichette giornalistiche definiscono “giovane”, è una cosa straordinaria. Un dato, giusto per rendersi conto delle dimensioni del fenomeno: i romanzi di Elena Ferrante, l’unico e gigantesco caso letterario italiano capace di conquistare lettori in tutto il mondo, sono stati tradotti in 44 paesi.
Che cos’ha di speciale questo libro? Quali sono le ragioni di questo interesse che è riuscito a suscitare negli editori di tutto il mondo? La risposta qualcuno l’ha già messa sul tavolo ed è molto semplice e insieme molto ingombrante: Le otto montagne è un libro che è già un classico. È vero? Sì. Lo è nella semplicità e insieme profondità della storia che racconta, ma anche nel suo stile, sintetico, preciso, mai urlato e sgombro da qualsiasi inutilità.
Le otto montagne è la storia di un rapporto tra maschi, un rapporto tra due amici che non si sono scelti, ma che si sono semplicemente ritrovati, un giorno di estate, sulle rive opposte dello stesso torrente. Da una parte Pietro, figlio della città e voce narrante, scacciato sull’altra riva ad ingannare il tempo rallentato delle sue vacanze estive. Dall’altra Bruno, figlio della montagna, che quel tempo lo passa a curare le vacche e proteggere il pascolo dagli scarponi del suo coetaneo villeggiante.
Si conoscono così, Pietro e Bruno, con diffidenza, annusandosi come cani. E il loro non è mai un rapporto semplice, come può succede nelle amicizie tra maschi: lisce, dure e silenziose come la superficie ghiacciata del lago di Grana d’inverno, ma contemporaneamente, come quello stesso lago, tumultuoso, sentimentale e potente nelle acque scure che rimbombano al di sotto cercando di liberarsi dal ghiaccio.
Sono figli di due mondi completamente diversi. Uno della piccola borghesia di città, l’altro del proletariato montanaro. Uno ha un padre che scaccia, l’altro ha un padre che insegue. Uno è senza baricentro e ha l’istinto di perdersi per il mondo, tra le otto montagne. L’altro, al contrario, è fin troppo piantato nel luogo dove è nato. Due specie d’uomini opposti, ma la cui amicizia resiste a tutto.
Ma non è solo per la trama e per lo stile che Le otto montagne emana quell’aura intemporale che è il primo e più importante indizio di classicità. Questo è un libro che risponde a una questione apertissima della letteratura di questo inizio secolo. La scrittrice Nadia Terranova, sul numero di IL di un paio di mesi fa, all’interno della sua recensione di Eccomi, l’ultimo romanzo di Jonathan Safran Foer la formula così: «uno dei problemi letterari del decennio: come far entrare le chat e i messaggi nei romanzi contemporanei?».
La risposta è lunga tutte le 200 pagine di questo romanzo. Ed è secca e decisa: non ci devono entrare. In nessun modo. Perché? Perché viviamo in un mondo iperconnesso, che ci ha frantumato il tempo e ha fatto a pezzi la nostra concentrazione. Il nostro Ego è esploso, si è fatto incontinente e viziato a furia di specchiarsi sui social network.
La Letteratura è uno degli antidoti e questo libro è un classico proprio perché sopravviverà a tutto questo. Perché è qui per ricordarci l’importanza di cose che sui social network stanno sparendo e che le montagne, come la letteratura, richiedono. Il tempo, il rispetto, l’umiltà, la concentrazione. E ce lo ricorda con semplicità, senza gridare. La letteratura, se proprio deve servirci a qualcosa, deve riuscire ad essere il fortino dove riparare per difenderci da questo bombardamento di inutilità. Fuor di metafora altisonante, è il luogo dove tornare la sera per ricordarsi che oltre a tutto il frastuono che abbiamo intorno, esiste ancora uno spazio per la concentrazione e per la lentezza.
C’è un’immagine, in questo romanzo, che sembra dipingere perfettamente la natura di questa cosa che chiamiamo Letteratura. È il ghiacciaio che si forma “alla quota delle nevi perenni”, come racconta il padre di Pietro ai due ragazzini durante una gita sul ghiacciaio. È quel luogo “dove l’estate non riesce a sciogliere tutta la neve che cade d’inverno. Una parte resiste fino all’autunno, e poi viene seppellita dalla neve dell’inverno successivo. Allora è salva. Là sotto piano piano si trasforma in ghiaccio”. Il ghiaccio, quella è la Letteratura con la maiuscola. È quello il luogo in cui si fermano le storie più pure, la vita distillata, che poi, negli anni e nei secoli, quando il proprio peso le fa scivolare verso noi lettori, rientrano in circolo, cambiano la vita alle persone e corrono verso il mare, per ricominciare tutto daccapo.
All’inizio dell’estate del 1981, tre anni prima che nella finzione del racconto Pietro e Bruno si incontrassero sul loro torrente, a Grana, Italo Calvino provò a rispondere a una domanda interessante: Perché leggere i classici? Calvino aveva una mente matematica, e per capire doveva prima di tutto di definire, creare tassonomie e arrivato al punto 13 del suo discorso, scrisse: «È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno».
Scoccia, e parecchio, fare le pulci a un grande come Calvino. Ciò non toglie che quello che era vero nel 1981, quando il rumore di fondo dell’attualità erano le bombe che esplodevano nelle stazioni e sui treni e ci stava eccome che riecheggiassero nella prosa, è diventato falso 35 anni dopo, quando il rumore di fondo è la nostra flatulenta vita parallela e alienante dei social network. Un luogo tanto alienante che neppure la fervida immaginazione di Calvino, ma forse neppure quella di Wells, Orwell, Huxley, Asimov, Bradbury, Ballard e Dick poteva immaginarsi.
Le otto montagne è un classico perché ci ricorda quanto è importante opporsi a quel rumore di fondo, tanto suadente e intossicante che ci stiamo addirittura convincendo di doverlo inserire anche nella letteratura. Quel rumore che Safran Foer sceglie di inoculare come un veleno nel suo romanzo. Quel rumore che ce la sta uccidendo davanti agli occhi, la letteratura.