Il mondo è alla frutta. Come ti muovi ci sono orde di zombie pronte a mangiarti le carni, puntando al cervello. Brutte cose che emettono suoni sinistri, lo sguardo spento, la mascella aperta. Le strade sono piene di auto abbandonate, di cadaveri e resti non ben identificati. I palazzi sono rovinati. I negozi devastati dagli sciacalli. Ogni tanto capita di incontrare un umano, ma è spesso impaurito da tutto questo, quindi neanche ai tuoi simili puoi guardare con tanta fiducia, spesso, anzi, arrivi a temerli più che gli zombi stessi. Questo è quanto. No, non sto descrivendo una qualsiasi puntata di The Walking Dead o un ennesimo remake dal capolavoro di George Romero. Queste poche righe sono, parola più parola meno, la descrizione che mi sono ritrovato a fare per circa tre ore e mezzo ai ragazzi che frequentano l’Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini di Roma. Se fossimo sempre in quel campo di descrizione lì, per intendersi, un villaggio ben difeso dagli attacchi esterni dove regna la pace e la prosperità.
Chiaramente, di qui la mia presenza in quella sede, il mondo non può essere solo quello chiuso dentro un recinto, quindi tocca armarsi di consapevolezza e coraggio e uscire dal cancello principale, pronti a confrontarsi con gli zombie, con le macerie e anche con gli altri nostri simili, diffidenti e incattiviti.
Un passo indietro. Anche due o tre, volendo. Circa tre anni fa succede una cosa. E succede a Roma. Ultimamente siamo abituati a pensare Roma come l’ombelico del mondo sbagliato. Nel senso, tutto quello che vi succede e che emerge è in genere qualcosa che non vorremmo sentire, che ci fa storcere il naso, in qualche modo indignare. A ragione o per i motivi sbagliati, non è importante. La cosa che succede tre anni fa, però, è molto bella, o può diventarla. Tiziana Donati, in arte Tosca, e Massimo Venturiello decidono di dar vita all’Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini, complice la nuova giunta regionale presieduta da Nicola Zingaretti e, soprattutto, all’assessore regionale Massimiliano Smeriglio. Così, a volte i miracoli succedono, anche se a piccoli passi, da un’idea nasce un progetto, un progetto che vede coinvolto la Disu, in passato non nota per la sua operatività, e che andando a pescare nei bandi europei, e che fa partire l’Officina. Da principio senza una vera e propria sede, e in una versione spartana, poi sempre più organizzata, fino ad arrivare all’oggi.
Ultimamente siamo abituati a pensare Roma come l’ombelico del mondo sbagliato. Nel senso, tutto quello che vi succede e che emerge è in genere qualcosa che non vorremmo sentire, che ci fa storcere il naso, in qualche modo indignare. A ragione o per i motivi sbagliati. Poi, tre anni fa, succede qualcosa. Tiziana Donati, in arte Tosca, e Massimo Venturiello decidono di dar vita all’Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini. Un posto enorme, per anni rimasto dismesso, e oggi non solo tornato a vivere, ma tornato a essere quel che un posto del genere dovrebbe essere: un luogo dove dei ragazzi studiano, apprendono, entrano in contatto col mondo dell’arte e del lavoro
L’oggi è quello che vede l’Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini attiva in una sede proprio di fronte al Ministero degli Affari Esteri della Farnesina, in zona olimpionica, in quella che un tempo era una casa dello studente. Un posto enorme, per anni rimasto dismesso, e oggi non solo tornato a vivere, ma tornato a essere quel che un posto del genere dovrebbe essere un luogo dove dei ragazzi studiano, apprendono, entrano in contatto col mondo dell’arte e del lavoro. In pratica un posto dove si possono formare, pronti poi a uscire nel mondo, zombie o non zombie. Tre sono i corsi dell’Officina. Musica, diretto da Tosca, Teatro, diretto da Venturiello, e Multimediale, diretto da Simona Banchi. Con loro una serie di insegnanti di primo livello, nel mondo della musica, per dire, il produttore Piero Fabrizi, Niccolò Fabi, Pilar, tanto per fare tre nomi tra i tanti, tutti scelti tramite bando pubblico. Con loro settantacinque studenti, che passano le giornate nei tanti spazi che la nuova sede offre, tra teatri, studi di registrazione, sale di posa, aule, spazi comuni dove condividere idee, suggestioni e anche momenti di svago. Durante le lezioni, e questo è un miracolo nel miracolo, vengono passati i know how non solo delle parti “artistiche”, ma anche dei vari mestieri che attorno a questi tre ambiti ruotano, dal fonico al produttore, dallo scenografo al costumista, e via discorrendo. Un piccolo miracolo, appunto, come ha sottolineato con orgoglio il governatore Zingaretti, che a questo progetto ha creduto e che questo progetto ha sostenuto.
Ma ovviamente non siamo certo qui per esaltare una figura pubblica come Zingaretti, anche se è bello sapere che anche dalla tanto vituperata politica possa arrivare qualcosa di buono. No, il motivo per cui scrivo dell’Officina è per dire che, in un momento come questo, in un tempo in cui davvero il mondo della musica sembra devastazione e apocalisse, una speranza c’è. Anzi, ce ne sono due, forse tre.
La prima speranza è nel sapere che ci sono artisti come Tosca e Massimo Venturiello, ma anche come tutti i professionisti che in questa struttura operano, che sono non solo disposti, ma addirittura consapevolmente felici di mettere le proprie conoscenze e esperienze a disposizione di quelli che prossimamente diventeranno i loro giovani colleghi. Nell’arte è sempre stato così, come ha sottolineato Venturiello durante l’inaugurazione, ma mai come oggi è importante che ci sia un accompagnamento in questa prima fase, perché la fuori è morte e distruzione, appunto. Metteteci una politica che per una volta è positiva e vi si apre il cuore.
La seconda speranza è data, in generale, dai giovani che questa realtà frequentano. Giovani che, invece che mettersi in fila per andare in un talent, decidono di mettersi a studiare, di sporcarsi le mani in un’officina, passatemi il gioco di parole, di passare ore a imparare l’arte e non metterla da parte (ok, la smetto). Gente che ti sta a sentire per tre ore e mezzo, mentre racconti loro cosa li potrebbe attendere, che fa domande, che si incuriosisce. Una caratteristica dell’Offina è di consentire l’accesso per selezione, e di garantire poi la possibilità di frequentare i corsi gratuitamente, come da bando europeo. Un altro miracolo, in un momento come questo, che vede il proliferare di scuole più o meno blasonate ma rigorosamente a pagamento, anche laddove i docenti siano molto meno qualificati di quelli che a Roma operano.
La terza speranza, invece, è fatta di carne e ossa. Carne, ossa e l’ukubasso. Sì, perché la terza speranza, che detto così suona un po’ pure come qualcosa di mistico, tipo il quarto mistero di Fatima, si chiama Gabriella Martinelli, di mestiere fa la cantautrice, di presenta suonando l’ukubasso e fa canzoni davvero belle e interessanti.
Tra i tanti volti presenti uno spiccava, per quella strana cosa chiamato carisma. Entri in una stanza e vedi un’aura, non puoi che notarlo. Così è stato. Si tratta di una ragazza con turbante, manco fossimo in un quadro di Jan Vermeer. Era Gabriella Martinelli, untalento che (ukubasso in mano) sta sta scrivendo canzoni sui corpi e le sensazioni di alcune donne, donne chiamate a farsi corpo di metafore, persichemonaggi di storie iconiche, metaforiche. E dovessi dirlo con parole semplici, si è trattato di innamoramento a prima vista
Vi racconto. Durante la lunga chiacchierata fatta di fronte ai ventisette ragazzi della classe di musica vedevo gli sguardi spauriti di questi giovani artisti. Spauriti e anche un po’ schifati, perché quando si parla di zombie, di cervelli mangiati, di mascelle spalancate di fianco la paura trova legittima residenza anche un po’ di schifo. Tra i tanti volti presenti uno spiccava, per quella strana cosa chiamato carisma. Entri in una stanza e vedi un’aura, non puoi che notarlo. Così è stato. Si tratta di una ragazza con turbante, manco fossimo in un quadro di Jan Vermeer. Durante le tre ore e mezzo ha dato vita a tutta una serie di facce, al punto che, per un momento, sarei quasi stato tentato di dire che no, stavo scherzando, là fuori sarebbe stato tutto zucchero filato e dolcetti, come in California Gurls di Katy Perry. Però sono andato avanti, perché questo è il mio mestiere.
Alla fine, però, un po’ di sensi di colpa li ho avuti. Non troppi, ma abbastanza. Dopo le chiacchiere di circostanza e un nuovo giro panoramico per la scuola sono ripassato davanti all’aula dove avevo parlato, e lì è successa l’epifania. La ragazza con turbante, Gabriella Martinelli, ripeto il nome nel caso non ve lo foste segnato, stava cantando un brano bello e articolato. Articolato, impossibile usare un altro aggettivo, parlando di questa musica. Musica che mette in campo corpi, parole, suggestioni, rincorse e giri panoramici, appunto. Sono entrato e ho lanciato la sfida, “fammi sentire qualcosa di tuo”. Questo è il mio vero mestiere, cercare talenti, raccontarli una volta trovati. E Gabriella Martinelli è un talento puro. Imbracciato l’ukubasso mi ha fatto ascoltare due brani incredibili. Brani vivi, in cui le protagoniste femminili, perché Gabriella Martinelli sta scrivendo canzoni sui corpi e le sensazioni di alcune donne, donne chiamate a farsi corpo di metafore, personaggi di storie iconiche, metaforiche.
Lo so che detto così sembra tutto molto complicato, e le canzoni di Gabriella Martinelli potrebbero anche esserlo, ma se avete presente cosa per voi rappresenta un’idea di bellezza, ecco, provate a applicarla astrattamente a una canzone e avrete di fronte uno dei brani che ho sentito io. Sì, dovessi dirlo con parole semplici, adolescenziali, parlerei di innamoramento, e in effetti di fronte alle canzoni si prova anche amore, a volte. Per me è così. Al punto che sì, mi ritrovo qui a parlarne, magari oscurando altri di questi giovani, meritevoli a loro volta. Penso a una Marat, per dire, giovanissima cantautrice che sembra incamminata per una strada interessante, o a un Carlo Valente, un po’ anacronisticamente arroccato in un cantautorato di mestiere, ma sicuramente di talento. Solo che lei, Gabriella Martinelli, è qualcosa di diverso, qualcosa di più. Una speranza, per dirla con parole mie. Una speranza di fronte al mondo di zombie che ci circonda.
Saperla lì, con Tosca, Piero Fabrizi, Niccolò Fabi, Pilar, Rudi Marra e tutti gli altri mi rassicura. Anzi, mi spinge a pensare che potrà ancora far meglio. Sapere in generale che l’Officina Pasolini, chiamiamola amichevolmente così, esista rassicura e spinge a pensare per il meglio. Gli zombie non ci avranno, torneremo prima o poi a camminare per strada senza paura di essere aggrediti. Coltivare la bellezza è un dovere per chi guarda all’arte. Di bellezza, qui, ce n’è parecchia, fidatevi di chi l’ha vista.