Amir è uno scafista improvvisato. Viene forzato dai suoi aguzzini libici a prendere la via del mare per raggiungere l’Europa. Ma ci sono cose che non sa. Amir non sa che quella sorta di “zattera” che tiene sotto i piedi vale meno del costo di ogni singolo “biglietto” che i trafficanti di uomini hanno staccato a lui, e i suoi 99 compagni di viaggio, per imbarcarsi dalle spiagge di Sabrata in direzione dell’Italia. Non sa che quella “zattera” è stata assemblata con gomma e plastica, impacchettata, e spedita via navi cargo, da nutriti gruppi di operai cinesi che lavorano nelle città di Quingdao, Weihai, Shenzen. In due delle province più orientali della Cina, Shandong a Guangdong, patrie dell’industria nautica con gli occhi a mandorla.
Sono distretti specializzati in imbarcazioni da diporto e svago, motorboat e yacht – negli ultimi 15 anni anche di lusso. E gommoni, da un po’ di tempo a questa parte. Senza troppo ritegno venduti su internet con la dicitura “refugee boat”, gommone per rifugiati. Chi proprio ha un minimo di pudore scrive “gommoni da rafting e attività sportive”, salvo poi consegnarli in Libia, dove la discesa fra le rapide di un fiume a colpi di pagaia è – si sa – lo sport nazionale per antonomasia. Come non potrebbe spadroneggiare il rafting, del resto, in un Paese che su una superficie di 1.760.000 km² i due terzi sono deserto?
Amir non sa nemmeno che, mesi prima, un intermediario ha comprato il gommone a prezzi stracciati – dai 500 ai 2000 dollari americani – inviando un T/T, trasferimento telex, nulla più che un bonifico internazionale. Oppure estraendo una carta Visa, una Mastercard, in pratica qualunque forma di pagamento elettronico, esclusi i bitcoin. Un pagamento verso l’estremo oriente che va a depositarsi nei conti della piattaforma Alibaba.com – il gigante dell’e-commerce “mandarino” che da solo gestisce nel mondo vendite superiori a quelle di Amazon e eBay sommate. Che di annunci per le “refugee boat” ne ha decine. In cinese, in inglese, in arabo. Con tanto di ordine minimo e profilo azienda.
Bastano 500 dollari americani, una carta Visa e un wi-fi per entrare in affari con i trafficanti di uomini della Libia. Su Alibaba.com è facile comprare una “refugee boat”, scritto così
Ci si potrebbe non credere ma anche questo business fa brodo nel mare della globalizzazione. I gommoni rappresentano tra il 15-20 per cento delle importazioni europee di imbarcazioni e materiale nautico dal Paese asiatico . Solo fra 2011 e 2012, nell’annata economica più aspra della crisi per il vecchio continente, l’import è salito da 161 a 233 milioni di dollari. Con la quota dei “refugee boat” in crescita. Ma Amir tutto questo non può saperlo.
Come non può sapere che le compagnie navali di trasporto merce hanno compilato una bolla e fatto uno scalo prima di arrivare nel continente nero. Una breve fermata al Malta Freeport – il porto internazionale. Pochi chilometri a sud della capitale La Valetta e dal 1989 hub di interscambio cruciale nel Mediterraneo. Ormeggiare al Freeport non costa poi tanto e si fa girare l’economia: per una nave da 160mila tonnellate bastano 240 euro, recita il loro tariffario. Un quarto rispetto ai 1000 euro pagati dallo scafista improvvisato e suoi compagni per rischiare la vita nelle 163 miglia nautiche che separano la Libia da Lampedusa.
“Che i gommoni siano stati importati dalla Cina verso Malta e la Turchia è supportato dalla recente intercettazione da parte della dogana maltese di 20 di questi, impacchettati, in un container destinato a Misurata, in Libia”
Amir no, ma qualcuno che conosce tutta la storia esiste. La dogana maltese, per esempio. E anche i comandi militari europei che infatti lo hanno scritto nei loro documenti. In particolare nel primo report semestrale di EuNavFor Med – operation Sophia – dal 2015 la missione europea di contrasto ai trafficanti nel Mediterraneo. Un cablo classificato e segreto, ma rilasciato da Wikileaks il 17 febbraio dell’anno scorso, dove l’ammiraglio Enrico Credendino, capo in comando dell’operazione scrive a pagina 9: “Che i gommoni siano stati importati dalla Cina verso Malta e la Turchia è supportato dalla recente intercettazione da parte della dogana maltese di 20 di questi, impacchettati, in un container destinato a Misurata, in Libia.”.
Già, anche in Turchia, perché le aziende cinesi sono specializzate nei gommoni gonfiabili sotto i 24 metri di lunghezza. Perfetti per essere importati sgonfi senza dare nell’occhio ed essere resi operativi alla notte – bastano delle bombole – dove prende vita la tratta battuta da siriani, afgani, pakistani, libanesi, cingalesi e bengalesi. Che dalle spiagge del distretto di Dikili e Smirne vanno verso le isole greche di Lesbo e Chios.
La Turchia non entra solo dalla finestra di questa storia ma anche dall’ingresso principale con tanti onori. Il porto internazionale di Malta è un bel crocevia di affari finanziari: gestito fino al 2004 in regime di monopolio dalla Malta Freeport Terminals, una società pubblica del Tesoro; a metà anni 2000 il Governo dell’isola del Commonwealth apre a una concessione di 30 anni per i marsigliesi di CMA-CGM, terza compagnia navale al mondo da 30mila dipendenti. Nel 2008 i francesi chiedono un’estensione della concessione da 30 a 65 anni. La ottengono. E poi girano metà delle quote ai turchi di Yildrim Group (porti, energia, miniere, chimica, real estate e private equity fra le molte attività che il colosso dell’Anatolia svolge) e infine un altro 49 per cento delle partecipazioni vengono stornate alla China Merchants Holdings International Company Limited, di Hong Kong, con la promessa di investimenti pesanti nelle infrastrutture dei terminal e del porto. Colossi turchi e cinesi, quindi, non a caso.
Il Porto Internazionale di Malta è un crocevia di interessi finanziari: colossi francesi, turchi come lo Yildrim Group e la China Merchants Holdings International Company Limited. Turchi e cinesi forse non a caso
Ad Amir lo scafista tutto ciò continua a non interessare. Lui non legge le cronache finanziarie maltesi e non conosce Wikileaks né Julian Assange. Chi invece li conosce non fa molto. Perché c’è un problema. Il sequestro da parte della dogana maltese di 20 gommoni, l’unico di cui si abbia notizia confermata in un documento, è solo temporaneo. Perché come scrive l’ammiraglio Credendino: “Non c’erano motivi legali per trattenerli e sono stati quindi rilasciati per essere consegnati a destinazione”.
Inoltre EuNavForMed in questo caso può fare poco: «L’attività in oggetto non ha visto il nostro coinvolgimento» è l’unica dichiarazione che ci rilascia un portavoce del quartier generale romano. Ha ragione Credendino, del resto. Nonostante la patetica scusa del rafting in Libia vendere o esportare gommoni non è illegale – ovvio. Sebbene questi siano di una fattura talmente pessima da non essere utilizzabili per nessun altro scopo se non la tratta di esseri umani, come ci hanno confermato la scorsa estate marinai tunisini, italiani e tedeschi che lavorano nel Mediterraneo sia come pescatori sia come operatori delle ong che si occupano di ricerca e salvataggio in mare.
Quei gommoni tubolari non servono per lo sport, non servono per il turismo, nemmeno per rimorchiare merci o come scialuppe di salvataggio. A ben vedere non funzionerebbero nemmeno come boe in mezzo al mare, perché dopo qualche ora o giorno si sgonfiano e imbarcano acqua. Sono solo una macchina da morte quasi certa per ragazzi come Amir. E di sicuro sono una delle principali cause del record negativo di cadaveri in mare nel 2016 fra i profughi, oltre 5000 secondo i dati dell’Agenzia Onu per i rifugiati.
I gommoni tubolari fatiscenti venduti su Alibaba sono fra le cause degli oltre 5mila morti nel Mediterraneo nel 2015. Perché usarli allora? Perché le barche in legno e vetroresina sono state distrutte dalle missioni militari europee credendo di sradicare così la rete dei trafficanti. E ora costano troppo
Nonostante la palese pericolosità i gommoni idraulici pesano per il 66 per cento delle imbarcazioni usate dai migranti. Almeno fino a due anni fa sempre secondo il documento EuNavFor Med. Oggi potrebbe essere peggio. Perché i pescherecci, le chiatte e le scialuppe in legno e vetroresina, più sicure, costano un sacco di soldi. C’era un ricco mercato dell’usato nel nord Africa e le reti criminali le acquistavano a fine carriera dai pescatori libici, tunisini o egiziani. E spesso venivano riutilizzate, di fatto, ammortizzando i costi dell’investimento (criminale) iniziale. Da due anni le missioni militari europee hanno cominciato a distruggere queste barche pensando così di contrastare i trafficanti, a volte affondandole in loco, e questo ha fatto schizzare i prezzi. È la vecchia regola: la legge della domanda e dell’offerta, come la natura, detesta il vuoto. E quando c’è troppa domanda (i migranti) e poca offerta (le barche) qualcuno riporta la situazione in equilibrio. A modo proprio. Questa volta era il turno delle le industrie cinesi dello Shandong e dei loro gommoni mortali. Perché come ci dice un giornalista basato in estremo oriente: «Dove c’è un buon affare state pure certi che ci sono i cinesi».