Dalle prigioni della Mauritania alle carceri venezuelane, sono oltre tremila gli italiani detenuti all’estero. Colpevoli o innocenti, spesso scontano la pena senza alcuna tutela dei diritti umani. Privati di beni di prima necessità, costretti a vivere in celle sporche e sovraffollate, non di rado vittime di malagiustizia e corruzione. Tutti protagonisti di storie dimenticate.
Per avere un’idea del fenomeno basta leggere le statistiche pubblicate ogni anno dal ministero degli Esteri. Nel 2015, ultimo dato disponibile, i nostri connazionali incarcerati fuori confine erano 3.288. La maggior parte è ancora in attesa di giudizio. Ben 2.544 si trovano in Europa – 1.191 solo in Germania – ma ci sono italiani rinchiusi nelle galere di mezzo mondo. Quasi 500 persone sono nel continente americano: la Farnesina ha registrato 79 casi in Brasile, 77 negli Stati Uniti d’America, e 150 tra Perù, Argentina e Venezuela. Più di 40 sono in Medio Oriente, una decina in Asia (quasi tutti in India). E poi ci sono 15 italiani nelle prigioni dei paesi sub sahariani. Chiusi nelle celle del Senegal (5), Guinea, Congo, Ghana, Mali, Mauritania e Nigeria. Poco prima di Natale la questione è arrivata in Parlamento. La senatrice grillina Paola Donno ha presentato un’interrogazione per fare luce sul fenomeno, ricordando il dramma dimenticato di molti connazionali. Privati dell’assistenza di un legale o di un interprete, in alcuni casi. Altre volte abbandonati nella totale assenza di igiene e dignità. «I connazionali detenuti – si legge – sono esposti a diffusi episodi di contrazione di malattie a cui, però, non seguono idonee cure, anche a causa di difficoltà legate al recapito di medicinali e alla sottoposizione a visite specialistiche».
Nel disinteresse generale, in questi anni c’è chi ha intrapreso una battaglia per difendere i loro diritti. Nove anni fa Katia Anedda ha fondato l’associazione “Prigionieri del Silenzio”, un impegno nato da una dolorosa esperienza personale. Oggi si occupa di aiutare gli italiani detenuti all’estero. L’associazione offre un sostegno ai familiari, fa da tramite con le autorità e la Farnesina. In alcuni casi cerca persino di offrire un supporto economico, magari organizzando una raccolta di fondi. «Non entriamo mai nel merito delle vicende processuali – racconta Anedda – Non ci interessa se una persona è colpevole o innocente, è importante che vengano rispettati i suoi diritti». Purtroppo non sempre è così. Soprattutto lontano dall’Europa, le situazioni drammatiche non mancano. Ci sono casi in cui i nostri connazionali vengono privati dei beni di prima necessità, non mancano episodi di violenze e torture.
Dalle prigioni della Mauritania alle carceri venezuelane, sono oltre tremila gli italiani detenuti all’estero. Colpevoli o innocenti, spesso scontano la pena senza alcuna tutela dei diritti umani. Privati di beni di prima necessità, costretti a vivere in celle sporche e sovraffollate, non di rado vittime di malagiustizia e corruzione
Dopo anni di lavoro in prima linea, lo scorso ottobre Anedda ha raccontato alcune delle vicende più eclatanti in un bel libro pubblicato da Historica Edizioni. Si intitola “Prigionieri dimenticati, Italiani detenuti all’estero tra anomalie e diritti negati”. Con la prefazione dell’ex ministro Giulio Terzi di Sant’Agata, tra le pagine sono riportate una dozzina di storie incredibili. E quasi sempre sconosciute. È il triste destino che accomuna quasi tutti gli italiani incarcerati all’estero. Spesso non possono contare neppure sulla presenza delle istituzioni. «In alcuni consolati ho trovato grande collaborazione – racconta Anedda – in altri nemmeno rispondono alle mail». Un silenzio che riguarda anche giornali e televisioni: «I media di queste cose non parlano, non fa notizia». Intanto queste persone sono lasciate da sole a convivere con il proprio dramma. «Gran parte dei questi detenuti – si legge nell’interrogazione depositata a Palazzo Madama – ha una famiglia residente in Italia e non ha diritto ad un supporto economico per le spese legali e di gestione da affrontare, ivi compreso un aiuto psicologico gratuito».
Molti di loro sono colpevoli, certo. I reati più diffusi riguardano il traffico di stupefacenti. Ma insieme a veri e propri criminali non manca chi sta pagando per un errore o una leggerezza. Del resto, in alcuni paesi, per finire in carcere basta il possesso di pochi grammi di marijuana. «E così ti rovini la vita» racconta Anedda. In diverse realtà gli istituti di pena sono un inferno. In Sudamerica spesso è la criminalità organizzata comandare all’interno delle prigioni. Nei casi migliori i detenuti italiani sono costretti a pagare continuamente i propri compagni di cella, altre volte sono sottoposti a incredibili violenze.
Molti di loro sono colpevoli, certo. I reati più diffusi riguardano il traffico di stupefacenti. Ma insieme a veri e propri criminali non manca chi sta pagando per un errore o una leggerezza. Del resto, in alcuni paesi, per finire in carcere basta il possesso di pochi grammi di marijuana
In questi giorni Anedda sta seguendo il caso di un ragazzo romano incarcerato in Colombia. Era in vacanza con la moglie e la figlia di sette anni, si è lasciato coinvolgere in una storia più grande di lui. È stato arrestato all’aeroporto, mentre si imbarcava per l’Italia, in possesso di una piccola quantità di droga. «La moglie non lavora e non sa come mantenerlo – racconta – la bambina, che lo ha visto arrestare davanti ai suoi occhi, è sconvolta e ha bisogno di un sostegno psichiatrico». La presidente di Prigionieri del silenzio non si nasconde. «È giusto pagare per il reato commesso. Ma nessuno può privare una persona dei propri diritti. Non si può morire per una condanna». Per alcuni connazionali è finita davvero così. Anedda ricorda il caso di Simone Renda, un giovane leccese deceduto pochi anni fa in un carcere messicano. Arrestato in circostanze poco chiare, nonostante un principio di infarto è stato trattenuto per due giorni in cella senz’acqua, cibo e assistenza sanitaria. Non è più uscito. Un altro prigioniero del silenzio, ennesima vittima dimenticata.