È il cruccio e l’obiettivo di ognuno, soprattutto di questi tempi, soprattutto dopo la Grande Crisi che ha colpito l’Italia più di altri: trovare un lavoro, avere un’occupazione. Eppure a volte non basta. Sempre più non basta per avere una vita dignitosa o per evitare l’indigenza.
Eurostat definisce a rischio di povertà quelle persone o quei nuclei familiari in cui non si raggiunge il 60% del livello mediano di reddito disponibile, che sia proveniente da salari da lavoro o da altri. E a quanto pare si tratta di un rischio che non riguarda solo disoccupati o inattivi, ma sempre più anche i lavoratori. È il fenomeno dei “working poors” venuto alla ribalta da tempo negli Usa, colpendo soprattutto coloro che percepiscono il salario minimo e sono occupati in mansioni a valore aggiunto molto basso.
In Europa il problema si è fatto sentire laddove vi è una alta disuguaglianza nei redditi, come nei Balcani, in Romania, dove colpisce più di metà dei lavoratori e in generale in quasi tutto l’Est, ma è in crescita anche là dove vi è stata una crisi e ora l’occupazione è in ripresa, ma in modo poco equilibrato, come in Spagna, con il 26,2% di soggetti coinvolti. In Italia nel 2015 erano il 18,6% le persone che nonostante risultassero impiegate erano a rischio di povertà.
Non siamo il Paese in cui il fenomeno è più grave, ma quello che è inquietante è il trend in aumento che colpisce in particolare i giovani, ma ormai anche i lavoratori di mezza età. Gli unici immuni, in particolare in Italia, sono quei pochi lavoratori oltre i 65 anni:
Lavoratori a rischio povertà – Fonte: Eurostat
Non essere in testa, per una volta, in questa speciale classifica non può essere per noi italiani particolarmente consolatorio, per un motivo principale: nel nostro Paese i lavoratori sono pochi. Con un tasso d’occupazione solo del 57%, contro il 75% in Germania, ci si aspetterebbe che i pochi lavoratori siano impiegati in mansioni con una certa produttività, e che le persone con meno competenze, quelle che per esempio in Germania ricoprono ruoli più marginali (vedi i mini-jobs), da noi facciano parte di quel 43% di disoccupati o inattivi.
E invece no, avere un lavoro non significa far parte dell’elite, come potrebbe sembrare dai numeri, il rischio di povertà è reale e in aumento anche tra i pochi occupati italiani. Ed è cresciuto proprio per quei soggetti che tra cui era sempre stato minore, i single e i nuclei familiari senza figli. In una parola, tra i giovani.
Fonte: Eurostat
Sembra quasi che la fragile ripresa in atto dal 2013 abbia prodotto posti di lavoro di qualità particolarmente bassa. E questo viene confermato dalle dinamiche del rischio povertà per intensità di lavoro. Nonostante in media ci siano meno “working poors” in Italia che in Germania, siamo il Paese in cui sono di più tra coloro che hanno un’intensità di lavoro medio-bassa, ovvero tra coloro che sono occupati per una frazione di tempo uguale al 40%-60% del totale, chi ha un part time o più probabilmente chi ha impieghi saltuari.
Fonte Eurostat
Tra chi lavora circa il 40% del tempo potenziale a disposizione il 40,4% è a rischio povertà, mentre si scende al 4,9% tra chi è a tempo pieno. E negli ultimi 10 anni il nostro Paese è quello in cui più si è visto aumentare questo rischio proprio per il segmento dei lavoratori a bassa intensità.
Fonte Eurostat
A dimostrazione che la crisi economica non ha avuto effetto solo in termini di aumento della disoccupazione, ma anche di qualità dell’occupazione per chi un lavoro l’ha tenuto o trovato, colpendo in modo asimmetrico proprio coloro che già erano più vulnerabili perchè precari.
Non meraviglia quindi il fatto che l’Italia risulti sopra la media europea per differenza nel rischio di povertà tra chi ha lavori saltuari e precari e chi ha un contratto a tempo indeterminato.
Fonte Eurostat
Più disuguaglianze dunque. Le stesse che si ritrovano, in modo forse anche più clamoroso, in un altro campo, quello delle differenze in rischio di povertà tra lavoratori nati all’estero, immigrati, e popolazione locale.
Questo divario in Italia è raddoppiato in 10 anni, a differenza di quello accaduto in Francia, Regno Unito, e anche Germania, dove pure il rischio povertà generale è più alto. Solo in Spagna tra i grandi Paesi è accaduto di peggio.
Fonte Eurostat
Fonte Eurostat
È evidente che tra le categorie che più hanno sofferto questo difficile periodo, anche avendo un lavoro, vi sono proprio gli immigrati. Di fatto la crescita della povertà tra i lavoratori è in parte spiegata proprio dall’aumento tra coloro che sono nati all’estero. È vero anche che tra gli immigrati i tassi di attività, di coloro che cercano un lavoro, sono decisamente più alti, e le competenze minori, e quindi è molto più facile trovare impieghi a basso valore aggiunto, ma che lo vogliamo o no, in futuro dovremo sempre più occuparci del solco che si sta scavando tra italiani e stranieri, ma questo è un altro, gigantesco, capitolo.