In gioventù avrebbe voluto fare il pilota dell’aeronautica. Oggi è il ministro più amato del governo Gentiloni, almeno secondo i sondaggi più recenti. Calabrese classe 1956, Domenico Minniti, detto Marco, dal 12 dicembre è il nuovo titolare degli Interni. Esperto di intelligence, schivo e riservato, conosce a menadito gli uomini e gli apparati di sicurezza dello Stato. Dal terrorismo all’immigrazione, sono bastate poche settimane all’ex golden boy di Massimo D’Alema per dettare l’agenda e far parlare di sé. «Il signore delle spie», «il ministro forte» scrivono i giornali. Una sorpresa per molti, una conferma per gli addetti ai lavori che da tempo ne studiano le mosse.
«Non è il classico uomo dei servizi», racconta chi lo conosce bene. Una laurea in filosofia, la tessera dei Giovani Comunisti e poi quella del PCI, quindi la carriera a Palazzo. Sbarca al governo con D’Alema, come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Sottosegretario alla Difesa nel secondo governo Amato e viceministro dell’Interno nel secondo governo Prodi. Infine la delega ai servizi nel governo di Enrico Letta, che mantiene con l’arrivo di Matteo Renzi. Una scalata brillante e silenziosa, votata alla discrezione.
Niente profili sui social network, pochissime interviste. «Sono la prova vivente che in politica si può sparire e contare lo stesso», dice il diretto interessato
Un politico, ma anche un tecnico. Ne è convinto il giornalista Fabrizio Rondolino, storico amico ed ex collega di Minniti. «Marco unisce una formazione politica classica alla passione per gli apparati di sicurezza. Sui servizi ha cominciato a lavorare vent’anni fa e non ha mai smesso». Il ministro conosce personalmente i vertici e i funzionari di tutti gli organi, si spende da tempo per sminare la rivalità tra i corpi dello Stato. «Ha svecchiato l’immagine delle nostre spie – ricorda Grazia Longo sulla Stampa – Ha voluto il declassamento degli atti coperti da segreto e ha puntato all’assunzione di trenta giovani selezionati dalle università su settemila curriculum».
Al lavoro lo descrivono studioso e pragmatico. «Sa dove mettere il cacciavite e va dritto alla soluzione del problema». Nel 1996 era uno dei massimi collaboratori del premier Massimo D’Alema – componente del leggendario gruppo dei Lothar – e coordinatore della sua segreteria politica. Già all’epoca lavorava sodo, lontano dalla ribalta mediatica. «Tra noi era quello che appariva meno», ricorda Rondolino, insieme a lui nello staff di Palazzo Chigi. «Con D’Alema – raccontava lo stesso Minniti a Linkiesta – abbiamo condiviso un’esperienza politica per certi versi straordinaria. Il ricambio generazionale di cui oggi tutti parlano noi l’avevamo già ottenuto. A 38 anni ero dirigente, a 42 sottosegretario. Ricordo ancora una mia visita ufficiale a Cuba nel 1994. Ero partito con l’obiettivo di ristabilire i rapporti diplomatici con il partito comunista cubano. Prima di incontrare Castro mi presentarono al suo aiutante di campo. L’uomo, sulla settantina, studiò bene la mia biografia. Davanti ai dati anagrafici miei e di D’Alema rimase a bocca aperta. Poi richiese stupito: “Ma da voi chi comanda veramente?”».
Niente profili sui social network, pochissime interviste. «Sono la prova vivente che in politica si può sparire e contare lo stesso», dice il diretto interessato all’Espresso. Eppure, raccontano gli amici, «Marco è persona solare e autoironica, ha mantenuto uno spirito giovanile e scapigliato. Come i migliori dirigenti comunisti, ha un formidabile repertorio di sciocchezzai e barzellette proprio sul mondo comunista».
Direttamente dal Viminale Minniti guida la macchina dello Stato che tiene le redini della sicurezza e organizza le elezioni politiche. Dopo l’esperienza con D’Alema e una solida amicizia con Cossiga, ha navigato in acque veltroniane. Da qualche anno gode della piena fiducia di Matteo Renzi, non ha correnti alle spalle né truppe parlamentari
Ora l’occasione della vita: la poltrona di ministro. Il fronte caldo è quello dell’immigrazione, con il 2016 anno record per gli sbarchi. Senza dimenticare il terrorismo jihadista, con l’attentatore di Berlino Anis Amri neutralizzato a Sesto San Giovanni. A gennaioMinniti ha approntato un pacchetto che prevede misure come la riapertura dei Cie, il potenziamento dei rimpatri degli irregolari, l’impiego dei richiedenti asilo in lavori di pubblica utilità. Con i centri di identificazione ed espulsione si è guadagnato più critiche a sinistra che a destra. Qualcuno lo ha già definito sceriffo. Lui si dice convinto che «la sicurezza sia pane per i denti della sinistra». Punta sul doppio binario severità-integrazione, chiarendo: «La cosa più sbagliata sarebbe fare un’equazione tra immigrazione e terrorismo». Lo difende Fabrizio Rondolino: «La sua è una mezza svolta culturale, d’altronde solidarietà e fermezza sono facce della stessa medaglia. Se a una parte della sinistra queste parole suonano provocatorie non è perché Minniti sia avanti, ma perché la sinistra è arretrata».
Animatore della Fondazione Icsa (Intelligence Culture and Strategic Analysis), think tank sui temi della sicurezza, negli anni da sottosegretario con delega ai servizi ha curato la regia dei dossier più caldi: dal caso Regeni alla polveriera libica. Proprio qualche giorno fa Minniti è volato a Tripoli, annunciando (lui e non Alfano) la riapertura dell’ambasciata d’Italia in Libia, ma ha fatto tappa anche in Tunisia e a Malta per parlare di immigrazione. Tanti i tavoli aperti: dialoga con Regioni e Comuni per ridefinire i termini dell’accoglienza, lavora a un patto con le comunità islamiche italiane, prepara un pacchetto di provvedimenti per la sicurezza urbana. Direttamente dal Viminale Minniti guida la macchina dello Stato che tiene le redini della sicurezza e organizza le elezioni politiche. Dopo l’esperienza con D’Alema e una solida amicizia con Cossiga, ha navigato in acque veltroniane. Da qualche anno gode della piena fiducia di Matteo Renzi, non ha correnti alle spalle né truppe parlamentari. «Non ci sono i minnitiani», assicura chi lo conosce bene. «È un uomo legato al partito, più che a un leader». Però sono pronti a giurare che in Calabria il ministro schivo e riservato può vantare «un forte consenso popolare» e un serbatoio di voti non indifferente. «Più di tanti leader mediatici».