Alla fine degli anni Settanta, non c’era ancora la Lega Nord. Ma loro due, sì. Umberto Bossi e Roberto Maroni lavoravano già, a Varese, a una proposta autonomista che di lì a qualche tempo sarebbe diventata anche forza di governo. Bossi a suscitare passioni, azzardare svolte politiche, scandalizzare gli avversari. Maroni a costruire rapporti, smussare le asprezze verbali, mostrare pragmatismo. I due hanno vissuto anche due drammatiche stagioni di litigi, l’ultima appena cinque anni fa, quando gli scandali della famiglia di Gemonio hanno portato Maroni a sostituire Bossi alla guida della Lega, con tanto di accuse di complotti in combutta coi servizi segreti. Ora i tornanti elettorali li hanno riavvicinati. Né Bossi né Maroni possono formalmente dettare la linea politica alla Lega. Entrambi hanno però iniziato a far pesare l’esperienza (e i maggiori contatti), per indirizzare le scelte del loro giovane successore: Matteo Salvini. Spingendolo a un accordo a ogni costo con Silvio Berlusconi.
Salvini ha il consenso. Ha la freschezza di una stagione nuova. E’ il volto mediatico unico di questa Lega votata a seguire le orme di Donald Trump e di Marine Le Pen, più che quelle dei suoi predecessori in cerca di mediazioni. Ma i due vecchi leader leghisti stanno diventando l’ostacolo principale alle sue ambizioni. Bossi e Maroni vogliono che Salvini non rompa il perimetro del centrodestra tradizionale. Difendono gli accordi che in passato hanno tenuto in piedi governi guidati dal Cav e oggi le Giunte regionali e comunali, a partire da quella lombarda guidata proprio da Maroni. Ritengono, insomma, che da sola la Lega non possa andare da nessuna parte, visto che il voto anti-establishment sarà da contendere al Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. In fondo, sia Bossi sia Maroni fiutano che restando così frammentato il quadro politico, una vittoria di un centrodestra unito alle prossime elezioni Politiche non sia da scartare del tutto. C’è solo un problema: perché questo disegno unitario si realizzi, Salvini dovrebbe rinunciare alla prospettiva di essere lui il candidato premier di tutto il centrodestra. O, almeno, non dovrebbe pretendere questo ruolo.
Maroni, in un’intervista al Corriere della Sera, ha gelato il suo successore: chi dà le carte è ancora Berlusconi. Bossi, citato dall’Adnkronos, ha aggiunto altre convinzioni alle critiche che ormai da mesi va ripetendo in pubblico: mettersi contro Berlusconi porterebbe guai. Che i due siano tornati a fare, come ai vecchi tempi, il gioco delle parti? Forse, vista anche una recente ‘tenaglia’ sul Salvini promotore della linea solitaria all’ultimo Consiglio federale leghista. Ma non lo si può dire con certezza. Bossi è fuori dai giochi da parecchio tempo. Non muove truppe, fra i quadri della Lega. Non ha incarichi, se non quello onorifico di presidente a vita. Non va in televisione. Frequenta i soliti baretti della provincia varesotta. Quando è a Roma, capita spesso di trovarlo da solo a fumare il sigaro ai tavolini del caffè Giolitti, isolato dal resto del gruppo parlamentare leghista. Maroni, invece, ha continuato a coltivare la sua carriera politica. Da presidente della Lombardia si muove autonomamente sul piano istituzionale. Frequenta i posti giusti anche all’estero, cerca un incontro con Trump a prescindere da Salvini. Non ha incarichi nel partito, ma in televisione lo invitano quando vuole. Gli avversari lo ascoltano. Bossi e Maroni non si frequentano più, anche se abitano a 28 chilometri di distanza. Ma sono tornati a parlare la stessa lingua. Soprattutto, c’è un particolare: Salvini non ha regolare udienza ad Arcore. Loro due, sì. E con Berlusconi parlano spesso.
Non sorprende, dunque, che Salvini abbia ormai rapporti tesi sia con Bossi sia con Maroni. Il segretario in carica dal 2013 ribadisce a tutti di considerare corrette le sue scelte: è la Lega, sondaggi alla mano, che deve dare le carte a Forza Italia. E’ la Lega che deve dettare la linea, sovranista e nazionalista, non un Berlusconi alleato con gli europeisti e attratto dalle sirene del Nazareno. E’ la Lega che deve puntare a un risultato a due cifre, pena il ritorno sotto la soglia del 4% a cui l’aveva lasciata nel 2013 Maroni (e Bossi coi suoi scandali). Salvini sa anche di avere con sé la stragrande maggioranza del partito. E poi c’è il problema delle candidature: le mosse dei due vecchi leader vanno anche messe sullo sfondo della battaglia per le liste che verranno compilate in vista delle prossime Politiche, che rischiano di essere appannaggio completo (o quasi) del segretario federale e dei giovani fedelissimi. Lo stesso Bossi potrebbe restare a casa dopo trent’anni esatti in Parlamento.
Diversamente dal Pd, però, la Lega non è la ditta ma la famiglia. Ed è probabile che, alla fine, si cercherà una sintesi che non rompa il rapporto sentimentale con la propria storia, perché nella base del Carroccio la storia conta ancora qualcosa. Bossi (75 anni) può garantire la continuità. Salvini (43 anni) può portare i voti. Nel mezzo, Maroni (61 anni), il ministro dell’Interno che ha gestito l’immigrazione e la sicurezza, può rimanere il volto istituzionale per qualsiasi evenienza, a patto che il processo a suo carico che si sta concludendo a Milano non finisca in maniera a lui troppo sfavorevole. In un’altra intervista, questa volta a Panorama, il governatore della Lombardia è stato crudo nella sua analisi: Berlusconi, Salvini e Meloni possono guidare i loro partiti, ma “non è detto che un leader di partito sia la scelta migliore” per guidare un governo. “Bossi è stato uno dei più grandi segretari politici degli ultimi decenni – le parole di Maroni – ma non era adatto a guidare il Paese”. Bisognerà solo vedere quanto può costare questa sintesi fra i tre segretari. Il nome di Luca Zaia, popolare governatore del Veneto, emerge spesso come utile mediazione, ma con poca convinzione. Il fatto è che se perde la Lega, perdono tutti i leghisti.
@ilbrontolo