Un amico condannato al gabbio per trent’anni, uno condannato dietro il bancone del pub di famiglia a vivere di coca e espedienti e un altro con macigno sulla coscienza e, in un armadietto, 4mila sterline da spendere in eroina. Li aveva lasciati così, Mark Renton, prima di sparire con il malloppo per chissà dove, e da qui riparte: con i baffi di Beg Pie imbiancati e visibilmente più piccoli sul viso nel frattempo imbolsito di quel campione di Robert Carlye; con i capelli di Sick Boy, ancora perfettamente ossigenati e per niente fuori luogo; con la faccia da pirla di Spud sempre identica a se stessa, ma un po’ più arresa di quello sbiadito ma bellissimo 1996.
Ci sono tanti modi di fare i conti con questo sequel di Trainspotting, modi di vederlo, ma anche di giudicarlo. Mai come in questo caso è vero che il valore e il significato del film non sono nel film in sé, ma, come la bellezza delle cose, è negli occhi di chi guarda. E, negli occhi di chi guarda Trainspotting ci sono almeno quattro reazioni, a seconda di quante rughe e occhiaie hanno intorno, a seconda di quando (e se) hanno guardato il primo film, e corrispondono a un numero identico di reazioni.
La prima è l’indifferenza, potentissima; la seconda è il divertimento, magari accompagnato da qualche risata complice; la terza è un viaggio vero, un terribile tuffo nell’adolescenza e ritorno, un ritorno che ricorda i ritorni al paesello dopo 15 anni di vita adulta e che ha insieme un senso pauroso di panico per il tempo che è passato, ma anche la bellissima e malinconica vertigine che hanno i bei ricordi.
Il primo modo è quello il cui sguardo è sempre stato dalla parte dei padri e delle madri di questa banda di scappati di casa. È quello dello spettatore che, nel 1996, aveva già abbastanza lune sulle spalle da osservare quella banda di fattoni scuotendo la testa e pensando, “Che schifo, ma guardatevi, come diavolo siete conciati?”. Il secondo modo è quello di chi, in quella lontanissima seconda metà degli anni Novanta, ancora non era nato ed è arrivato solo da poco all’età in cui viene naturale ridere davanti alla nuotata di Mark nella merda del cesso del più lurido negozio di scommesse della Scozia, perso dietro a due supposte appena cagate di oppio.
È la nostalgia la forza che tiene insieme tutto, è inutile girarci attorno. Senza quella forza centripeta che riporta tutto a quei fantastici anni Novanta e alla tragica leggerezza del primo episodio, questo Trainspotting 2 rasenterebbe il ridicolo
Il terzo, invece, è quello di chi Trainspotting se l’è preso in piena faccia al momento giusto. Di chi in quella fine degli anni Novanta aveva tra i 15 e i 25 anni e guardava le fughe della banda per le strade di Edimburgo con il sorrisino complice di chi tifa per loro. sparato in vena durante l’adolescenza. Quella generazione, nata tra i Settanta e gli Ottanta, che l’eroina la conosceva per sentito dire, di quelli che da piccoli non potevano andare a giocare nei parchi e nemmeno nelle aiuole dalla paura che provavano i loro genitori. È ai loro occhi che questo film ha un senso. È nella loro testa che questo film funziona molto più che per gli altri.
Funziona perché Danny Boyle non risparmia i richiamini ai tempi che furono e, probabilmente spinto dal fatto che una buna parte di spettatori a questo T2 ci arriva vergine del T1, non ha affatto lesinato in giustapposizioni di scene vecchie e nuove, di facce vecchie e nuove, inserendo addirittura il remake di una scena, quel bellissimo e insieme tragico sorriso che si apre sul volto di Ewan McGregor ventenne mentre scappa e finisce sul cofano di una macchina. Sono quelli i punti in cui il film colpisce dove è più tenero e fa più male, ma, contemporaneamente, sono anche i momenti migliori.
È la nostalgia la forza che tiene insieme tutto, è inutile girarci attorno. Senza quella forza centripeta che riporta tutto a quei fantastici anni Novanta e alla tragica leggerezza del primo episodio, questo Trainspotting 2 rasenterebbe il ridicolo. E il rischio è proprio che agli occhi di chi i suoi vent’anni li ha adesso potrebbe essere proprio così, un film ridicolo, una commedietta inglese agrodolce per bambini cresciuti. Oppure, chissà, magari a veder il mondo come era una volta, senza cellulari, senza social e senza internet, questo popolo di ventenni che di quei tempi probabilmente conoscono soltanto, e a sprazzi, la colonna sonora, proverà uno spaesamento positivo, un po’ come quelli che provavamo noi, da piccoli, a leggere le storie dei pirati.