Fake News: la corretta informazione è inutile, i fatti non ci fanno cambiare idea

Il nostro cervello è strutturato per dare meno credito alle opinioni che contrastano con i pregiudizi. Avviene in politica specialmente, ma non solo. Avvertenza: se non siete d'accordo con questo articolo la lettura dello stesso NON vi farà cambiare idea

“Il tasso di omicidi nel nostro paese è il più alto degli ultimi 47 anni”, ha spiegato il presidente Trump il mese scorso a un gruppo di sceriffi da lui personalmente invitati alla Casa Bianca. “Ho citato questo dato durante un discorso e tutti sono rimasti a bocca aperta, e questo perché la stampa non dice le cose come stanno. Perché non le conviene. Eppure il tasso di omicidi è il più alto, immagino, degli ultimi 45-47 anni”.

Un dato certamente impressionante. Se non fosse che la stampa aveva un buon motivo per non parlarne: semplicemente, è falso. Stando alle misurazioni del Bureau of Justice Statistics il tasso di criminalità – e i crimini violenti in particolare – è in continuo calo da 25 anni. Eppure una buona parte degli americani, anziché godersi un buon risultato in termini di sicurezza pubblica, resta convinta di un’escalation criminale che peggiora di anno in anno. Perché dati e statistiche autorevoli hanno meno credito di ciò che, senza prove alla mano, un singolo individuo come Trump sostiene (o, come dice lui, “immagina”)?

Negli ultimi decenni, molti studi (citiamo per esempio quello del 2010 di Brendan Nyhan e Jason Reifler) hanno confermato un assioma molto semplice: i fatti non ci fanno cambiare idea. I ripensamenti sono così ostici per la mente umana che nemmeno la corretta informazione, suffragata da dati e documenti, è in grado di farci fare un passo indietro rispetto alle nostre credenze.

Ma chi è disinformato non si limita a restare ancorato alle proprie opinioni, anche se confutate, in genere finisce per radicalizzare ancora di più il suo punto di vista. Come se, avvertendo una minaccia, il nostro pregiudizio serrasse i ranghi per compattarsi sempre più in profondità nel nostro cervello. È chiamato “backfire effect.” (“ritorno di fiamma”) e indica l’effetto controproducente della prova fattuale: in pratica, combattere la disinformazione con i fatti è come cercare di spegnere con l’acqua un fuoco originato dal grasso: può sembrare ragionevole, invece peggiora le cose. È paradossale, eppure spiega molto bene come mai ai pranzi di Natale, nonostante il vostro argomentare così arguto, lo zio non si smuova di un millimetro dalla sua idea sull’immigrazione e tutto finisce in frustrazione e occhiatacce durante la tombola.

Chi è disinformato non si limita a restare ancorato alle proprie opinioni, anche se confutate, in genere finisce per radicalizzare ancora di più il suo punto di vista. Come se, avvertendo una minaccia, il nostro pregiudizio serrasse i ranghi per compattarsi sempre più in profondità nel nostro cervello.

Si accusa spesso la stampa di informare poco e male, qualche volta però la colpa è semplicemente nostra, o più precisamente di come è fatto il nostro cervello, che ben prima dell’algoritmo selettivo di Facebook, funzionava più o meno alla sua stessa maniera, secondo il principio del “confirmation bias”. Il “pregiudizio di conferma” altro non è che la tendenza ad abbracciare le informazioni che supportano le nostre credenze e respingere quelle che le contraddicono. Una forma di attenzione selettiva che va sé, sul web sprigiona tutta la sua potenza, data la quantità esorbitante di informazioni che appiattisce l’autorità della fonte.

Anche il debuking (smontare le bufale) serve a poco. Walter Quattrociocchi dell’Imt di Lucca, autore di Misinformation – Guida alla società dell’informazione e della credulità, sostiene il principio del backfire effect: “Prendiamo il caso dei vaccini: se io sono convinto che il vaccino provochi l’autismo, interpreterò le tesi di esperti che sostengono il contrario solo come informazione veicolata, ad esempio, da questa o quella casa farmaceutica, andando a convincermi ancora di più della mia opinione iniziale per cui i vaccini fanno male”. Insomma, è sempre possibile trovare una giustificazione per minare l’autorità di una fonte avversaria.

Non tutte le credenze però sono radicate alla stessa maniera. Prima non abbiamo fatto a caso l’esempio di Trump. Un team guidato da Jonas Kaplan della University of Southern California, ha infatti dimostrato che la scarsa propensione a cambiare idea è maggiore in fatto di questioni politiche (aborto, matrimoni gay, pena di morte, possesso di armi) e più traballante quando sono in oggetto questioni o nozioni di carattere generale del tipo: “Napoleone era basso” (eh no, non lo era: 1 m e 68, quindi sopra la media dell’epoca e 3 cm in più di Nicolas Sarkozy).

Eppure non sono solo le credenze politiche a essere inamovibili. Lo storico Giuseppe Sergi è tra i molti accademici che da tempo sostengono una riabilitazione d’immagine del periodo storico in assoluto più bistrattato: il medioevo. Nel suo saggio L’idea di medioevo Sergi si impegna a smontare alcuni dei luoghi comuni più radicati e a restituire ai “secoli bui” un po’ di dignità storica, a scapito di una perdita di romanticismo. Per farlo, non si limita a riportare le nozioni corrette, ma spiega anche i meccanismi di psicologia collettiva che secondo lui hanno permesso a miti come lo ius primae noctis di sopravvivere nonostante le smentite degli studiosi.

Innanzitutto il criterio della semplicità: la spiegazione semplice è anche la più efficace sul piano divulgativo, come l’immagine della curtis concentrica, compatta e dall’economia chiusa contrapposta alla successiva rivoluzione commerciale, ai mercati e alla moneta. L’idea poi che l’economia del medioevo si reggesse sul baratto non è solo semplice, ma risponde anche al bisogno di esotismo, di distanziamento prospettico per il quale il medioevo risulta più interessante se ne si sottolinea la diversità, come fosse un magico altrove.

La cultura di massa non si limita soltanto a non recepire: “si comporta come i bambini quando si tappano le orecchie con le mani ed emettono suoni per non essere raggiunti dalle parole non gradite”

Allo stesso modo, è risaputo che si comprende meglio ciò che è più vicino e si interpreta alla luce del presente – o del passato prossimo – tutto ciò che è accaduto in precedenza. Ne è un esempio il concetto di famiglia allargata, ritenuto un residuo medievale. In realtà nel medioevo le maglie erano nucleari come le nostre, e il retaggio del gruppo familiare allargato proviene invece dalle famiglie rurali post rivoluzione industriale. La mente umana immagina spontaneamente i secoli anteriori simili al passato recente: la (cattiva) fama del medioevo, infatti, è in gran parte legata alla crisi del ‘300.

Secondo Sergi la cultura di massa non si limita soltanto a non recepire: “si comporta come i bambini quando si tappano le orecchie con le mani ed emettono suoni per non essere raggiunti dalle parole non gradite”. E questo per una sorta di affezione sentimentale nei confronti delle nozioni apprese: “Non si vuol perdere, a causa della storia, un frammento di memoria che ha funzione culturale e sociale”. Che nel caso dello ius primae noctis – al più un sopruso sistematico ma non certo una norma – è “l’attitudine delle comunità locali di contrapporsi al potere”.

Nel libro L’enigma della ragione, gli scienziati cognitivi Hugo Mercier e Dan Sperber tentano di dare una spiegazione evoluzionista alla nostra cocciutaggine. L’intelligenza, a loro parere, è una caratteristica evoluta, esattamente come la camminata eretta, e come tale va interpretata.

“Immaginate”, spiegano Mercier e Sperber: “Un topo che pensa secondo i nostri meccanismi, portato cioè a confermare la sua convinzione che non ci siano gatti nelle vicinanze”. Un confirmation bias di questo tipo lo porterebbe a diventare presto uno spuntino. Ma qual è secondo Mercier e Sperber il grande vantaggio dell’essere umano rispetto agli altri animali? La nostra capacità di cooperare. La nostra ragione quindi, più che per risolvere problemi logici, si è sviluppata per rispondere ai problemi posti quotidianamente dal vivere sociale.

La nostra ragione quindi, più che per risolvere problemi logici, si è sviluppata per rispondere ai problemi posti quotidianamente dal vivere sociale

In pratica, secondo i due studiosi, una funzione atavica del confirmation bias era quella di non farsi sopraffare dai membri del nostro gruppo. Come mai, viene spontaneo chiedersi, questo tipo di fallacie sopravvive anche oggi, nell’epoca di Twitter e delle fake news?

Secondo Mercier e Sperber si tratta di “Uno dei tanti casi in cui l’ambiente cambiato troppo rapidamente perché la selezione naturale fosse in grado di stargli al passo”. Se questa spiegazione vi convince poco, possiamo appellarci di nuovo a Sergi e alle sue interpretazioni più umanistiche. Lo storico parla anche di “atteggiamento benevolo nei confronti dell’errore affascinante”. In pratica, la nostra cultura ha più bisogno di un medioevo inventato, in negativo come in positivo, da cui poter attingere le radici delle nostre identità nazionali, regionali e locali. Il medioevo che la nostra mente evoca è quello a cui siamo affezionati: un’epoca magica, cupa o luccicante, “teatro di eroi mitici, dinastie ambiziose e popoli oppressi.

Medioevo e darwinismo a parte, le opinioni che confermano le nostre ci gratificano, provocano piacere, ci fanno sentire compresi, forti, intelligenti. Mentre ripensare le proprie convinzioni di base ha un effetto destabilizzante, getta un’ombra negativa sul passato, interrompe un percorso ideologico che si vorrebbe lineare, coerente, continuamente suffragato. Per questo per far cambiare idea è molto più efficace fare leva sull’emotività dell’individuo e non sulla riprova dei fatti.

È quindi anche per banali ragioni di piacere e autostima che, come diceva Albert Einstein, “è più difficile disintegrare i pregiudizi che disintegrare gli atomi”. Sarà vero? Se non ci credete sappiamo bene che non sarà certo un articolo a farvi cambiare idea.

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