«Ci sono persone per le quali il passato è la sola dimensione del reale. Per queste persone vivere significa essenzialmente aggiornare il proprio passato; di tale aggiornamento esse hanno coscienza discontinua, apparendo loro talvolta come conservazione, talvolta invece come perdita. È in simili momenti di lutto che queste persone, inorridite dal dilapidante cangiare della vita, chiedono soccorso alla letteratura».
Era il 1995 quando Michele Mari cominciava, proprio con queste parole, Filologia dell’anfibio, rendendo esplicito anche ai lettori quello che aveva già cominciato a fare già da qualche anno e da qualche libro: tornare indietro, al passato, all’infanzia, al vissuto-non vissuto letterario e ai libri che ne avevano fatto da cornice e, insieme, ne avevano impregnato la vita. L’obiettivo: cauterizzare ferite, trasformare tutto in letteratura.
Anche per questo, per questa sua totale fedeltà al vero anche e soprattutto quando inventa storie fantastiche, nel panorama italiano, e non solo, Michele Mari è uno scrittore straordinario. Ma proprio nel senso letterale del termine, composto di extra, fuori, e ordinem, ordine, “Che è fuori dall’ordinario, dall’usato, dal consueto”, scrivono i dizionari etimologici. Ecco, fuori dall’ordinario, in Mari, è tutto: da quella genetica tendenza alla commistione tra alto e basso, tra nobile e volgare, fino alla tensione linguistica, formidabile.
La voce di Michele Mari è una lingua unica nel trito e tristo panorama dell’italiano neostandard (di cui fa orrore già solo il nome). È una lingua ricca, costruita per accumuli, viva, pulsante, pescata nei registri più vari. È con questa voce che Mari torna al romanzo dopo la parentesi di Asterusher (una piccola perla edita da Corraini nel 2015), e torna a regolare dei conti, come in uno dei suoi amati western.
Sì, forse se fosse stata un western, questa nuova Leggenda privata di Michele Mari, appena pubblicata da Einaudi, sarebbe stata la cronaca dell’ultima notte di un pistolero che, prima dell’alba, dovrà vedersela con tutti i cacciatori di taglie della contea, tutti in una volta sola, tutti assettati del suo sangue. Ma western non è, questa fantastica autobiografia, è horror, e al posto dei bounty killer ci sono due genie di nemici: da una parte, l’Accademia dei mostri, creature terrificanti e innominabili — Quello che gorgoglia, Quello che biascica, Quella dalle orbite vuote — dall’altra i Ciechi, sorta di fantasmi-voyeur disseminatori di bulbi oculari e assetati di vita, la sua, quella vera.
Al posto della strada polverosa di fronte al saloon, le due schiere mostriformi danno appuntamento alla vittima nei suoi luoghi familiari, quelli dell’infanzia di Nasca — i lettori attenti di Mari già hanno capito tutto — e da lui vogliono un sangue ben più vitale e prezioso del plasma che ci scorre nelle vene. Da lui vogliono la memoria, la vita vera, i dettagli più scabrosi della sua esistenza, quegli stessi dettagli che, come i puntini del primo gioco della Settimana Enigmistica, se messi in rete danno il disegno, o forse un nome, o meglio il nome, quello che solo lo può salvare, un nome che non è Michele, che ma l’altro.
Mari, che della sua propria vita ha fatto da sempre il materiale ustionante da cui partire per plasmare le sue architetture narrative, messo con le spalle al muro accetta, e racconta. Affronta i temi più difficili e scabrosi della sua giovinezza, racconta la sua famiglia, a partire da i genitori — in primis quell’ombra lunga a forma di Enzo Mari che ha impregnato praticamente tutti i suoi racconti della sanguinosa infanzia — della madre, della sorella, dei nonni tanto diversi da non incontrarsi mai — non per niente geolocalizzati sulle due sponde opposte del lago Maggiore — e racconta di una ragazza, praticamente una visione, primo e più potente turbamento per gli anni a venire: «Ahi quanto quella visione mi si stampò nella mente, soggiogandola per anni e per anni!».
Sono questi frammenti salvati dal tempo e reificati in queste pagine, come a tanti altri era toccato prima di loro, la moneta che i mostri esigono: dettagli intimi, familiari, scabrosi, è questo l’unico materiale che il consesso di mostri e fantasmi, avidi ed esosi, richiede allo scrittore, esattamente la stessa cosa che negli ultimi dieci anni gli esegeti di Mari e i suoi lettori, rispettivamente mostri senza nome e fantasmi senza bulbi, chiedevano ai suoi libri. Lettori avidi di vita vera, ignari che memoria e letteratura sono parenti strettissime e che la vita, qualsiasi vita, reificata nella sua rappresentazione e trasformata in letteratura, non è più viva di un cervo volante conservato su un letto di bambagia, nella scatolina d’alluminio delle vecchie professoresse di scienze. Lettori esosi nelle loro richieste, mai sazi, lettori frustrati che, anche quando arriveranno in fondo a questo romanzo, ne vorranno ancora, e ancora, e ancora.