Mariana Enriquez è argentina, ha poco più di quarant’anni e un talento incredibile: quello di tessere in poche pagine racconti che fanno venire i brividi, come i dodici racconti che compongono il suo ultimo libro, Le cose che abbiamo perso nel fuoco, appena pubblciato da Marsiio.
Il suo talento è quello degli scrittori del genere fantastico perturbante, gli Edgar Poe, gli E.T.A. Hoffmann, gli H.P. Lovecraft con cui spesso la mettono a confronto, anche se a lei fa sorridere. Il perturbante, ovvero quel genere nato all’inizio della rivoluzione industriale, quando le lampade a gas cominciarono con la loro luce a creare un’oscurità leggermente diversa dal buio pesto, una oscurità che lasciava supporre che ci fosse qualcosa laggiù nel buio, qualcosa di terrificante, qualcosa che per un attimo dava l’impressione che qualcosa non tornasse.
Per Mariana Enriquez le cose, però, non sono così facili come per quei grandi maestri che tutti le citano intorno: le lampade a gas di Poe sono state sostituite da tempo da lampade al neon, sotto terra ormai abbiamo i peggio rifiuti tossici, altro che Chtulhu e anche gli specchi, nel cui fondo i suoi conterranei Borges, Bioy Casares, Ocampo e Cortazar, udivano il rumore delle armi, ormai sono stati sostituiti da specchi neri, piccoli Black Mirror che chiamiamo smartphone e il cui fondo è ancora sconosciuto. Eppure quell’oscurità esiste ancora, e fa ancora più paura di prima, nonostante siamo inondati dalla luce.
«L’oscurità ce l’abbiamo dentro», racconta Marianna Enriquez, di passaggio in una libreria milanese per la presentazione del suo ultimo libro. «E quello che ci fa più paura è che tutta questa luce, in realtà, non è in grado di illuminare quell’oscurità che abbiamo dentro».
Qual è la cosa più straniante della nostra epoca?
Questi strumenti, questi lontani pronipoti dei telefoni, come quello che stai usando per registrare la nostra chiacchierata. Ci danno l’illusione di vedere e sapere tutto, di essere connessi a qualsiasi cosa, ma non è vero. Questo smartphone è un pozzo senza fondo, un territorio completamente inesplorato e oscuro, con dentro non meno mostri di quelli che popolavano l’oscurità del mondo di Edgar Poe. È come se ci fossimo ammalati di una cecità causata dalla troppa vista, dalle troppe informazioni. Un po’ come si guarda il sole e si resta abbagliati.
Cosa succede al tema del doppio e dell’identità, così tipici per i fantastico, all’epoca di internet e dei social network?
La possibilità di identità che ci concede internet è affascinante e rispetto al tema del doppio, che come dici è uno degli elementi centrali della letteratura perturbante, aggiunge molta più complessità, perché non abbiamo più solo un doppio, abbiamo un triplo, un quadruplo, potenzialmente sono infinite le nostre identità in rete.
Come ci fai i conti quando scrivi?
A livello letterario è molto difficile. Molto. Me lo domando continuamente. Questa scissione dell’identità è molto difficile da trasformare in letteratura, ma non tanto perché sia difficile in sé, solo perché la stiamo vivendo. È un cambio di paradigma talmente radicale che un medium che è decisamente anacronico come la letteratura, a cui serve del tempo per adeguarsi al mondo, fa fatica a stare al passo. Ha bisogno di tempo. Io personalmente ho provato soltanto in un racconto, Verde rosso arancione, di pensare sato internet e le relazioni digitali tra persone con un tratto orrorifico. Però ci sono medium che ci riescono molto meglio della letteratura, penso a prodotti come Black Mirror, per esempio.
Proprio a proposito di serie televisive e di film, ultimamente questo genere è molto sfruttato, che effetto fa sul tuo modo di scrivere? E che effetto pensi che faccia sul nostro modo di leggere?
Stranamente a me tutto ciò che è narrativa audiovisuale — dai film alle serie televisive — non mi influenza, o quantomeno non direttamente. Mi appassionano i film e le serie televisive, ma la letteratura ha ancora un altro linguaggio. Mi sembra più complicato, mi sembra una sfida più grande produrre con il solo uso del linguaggio quelle stesse emozioni di paura, di straniamento, di perturbazione. Eppure il confronto tra i due media mi sembra che per alcuni versi possa anche chiudersi a vantaggio della letteratura.
Da che punto di vista?
Possiamo tranquillamente dire che oggi la lettura è un’attività di nicchia. C’è molta più gente che guarda film e serie rispetto alla gente che legge. E questo concede a noi scrittori una libertà di sperimentazione più ampia, perché male che vada se il tuo libro non funziona il prossimo lo farai con una casa editrice più piccola, e comunque resta un mio problema personale. Se Stranger Things non funziona è un problema per un sacco di gente. Questo a me sembra che dia alla letteratura una libertà incredibile.
Perché?
Pensa a uno degli scrittori contemporanei più geniali del genere di cui stiamo parlando: Thomas Ligotti. Ligotti è un genio, quel che scrive è studiato alla perfezione, è lavorato benissimo. E io credo che se lo possa permettere perché non c’è una pressione del mercato. I suoi libri non devono funzionare per un mercato di lettori identificato da una campagna marketing. I suoi libri devono funzionare letterariamente, a contatto con le sue ossessioni.
Nei tuoi racconti intrecci il crudo realismo sociale e politico con il soprannaturale. È i soprannaturale che è al servizio del reale o il contrario?
Tutti gli scrittori prendono il materiale delle loro storie dalla loro esperienza. Per uno scrittore argentino, o sud americano, che sta facendo come me letteratura fantastica orrorifica e perturbante non è possibile non prendere spunto dalla realtà politica e sociale in cui siamo immersi. A me piace molto Lovecraft e i suoi mostri, ma i nostri mostri sono più reali. Non devo inventarmi Chtulhu, mi basta un fiume avvelenato e dei poliziotti. Quello è il male adesso. L’orrore nella nostra realtà è vero, è intorno a noi.
La realtà ha superato la fantasia…
Sì, decisamente. La realtà sudamericana ancora più di altre. Anche simbolicamente, magari non in Argentina, ma pensa al Messico e alla Santa Muerte, alle guerre di narcotraffico. Anche in Argentina qualcosa di quel mondo esiste. Per esempiol, un giorno trovarono il cadavere di un bambino in un frigorifero. Non aveva le mani e i piedi e gli avevano asportato il cervello aprendogli la testa come Frankestein. Si potrebbe pensare al traffico di organi, ma no, perché il cervello non si può impiantare — non ancora, almeno, e lì sarà un altro tipo di perturbante — e quindi si capì che era un regolamento di conti, un crimine rituale. Al di là della motivazione, quell’immagine di quel bambino rappresenta il male molto più di un mostro che vive sotto terra. O ancora, pensa che si stima che ci siano circa 300 bambini che in Argentina furono tolti ai genitori assassinati dal regime e che hanno vissuto senza saperlo con i carcerieri dei loro genitori. Prima parlavamo del tema del doppio. Bene, qui quel tema ce l’abbiamo letteralmente, realmente. E fa molta più paura.