I boss ragazzini, così le mafie reclutano i giovani nelle periferie

Violenti clan di minorenni si contendono il territorio a Napoli, in Sicilia le cosche si affidano a bambini di dieci anni. Fino ai margini della Capitale, dove sono arruolati spacciatori e vedette under 18. Un lungo dossier dell’associazione daSud racconta un fenomeno ancora poco conosciuto

Emanuele era un boss di camorra giovanissimo, il leader indiscusso della “paranza dei bambini”. È morto a diciannove anni per le strade di Napoli, in uno scontro a fuoco con un clan rivale. Ucciso in sella alla sua moto, le armi in pugno, durante un’azione dimostrativa. «Doveva rispondere all’affronto del ferimento di tre ragazzini del suo gruppo, avvenuto pochi giorni prima». È la drammatica storia di un ragazzo cresciuto troppo in fretta, una delle tante. Vicende spesso sconosciute. Sono i tanti giovani italiani legati alle mafie, dalla Sicilia alla Calabria fino ai margini della Capitale. Un esercito di ragazzini «cresciuto all’ombra dei clan e dei cattivi maestri, pronto a morire o uccidere». Quasi sempre per soldi, o per il solo fascino del potere. Un dettagliato dossier accende le luci su un fenomeno poco noto ma ancora molto diffuso. Si chiama “Under – Giovani, mafie, periferie”, pensato dall’Associazione DaSud, curato da Marco Carta e Danilo Chirico e pubblicato da Giulio Perrone Editore. Il risultato del lungo lavoro è una fotografia di un pezzo del nostro Paese. Una lunga rassegna di storie personali, ma anche un incredibile viaggio tra periferie e povertà, scandito da un palpabile «vuoto istituzionale, sociale e culturale».

Dallo spaccio di droga ai delitti su commissione, passando per intimidazioni, detenzione di armi, violenze. Di fronte a certi dati è difficile girarsi dall’altra parte. «Delle attività illegali in cui sono coinvolti i minori – si legge – alcune non lasciano spazio alla prudenza: esiste un legame consolidato tra i giovani e le mafie». È un vincolo antico. Già negli anni Ottanta un nuova generazione ha tentato di affermarsi nei clan. Sono gli stessi anni in cui si affaccia nel nostro Paese, prepotente, il business della droga. Divenuto nel giro di poco tempo la principale fonte di guadagno per la criminalità organizzata. È un passaggio imprescindibile per capire la genesi dei giovanissimi criminali. «Nel 1984 i minori denunciati per reati inerenti agli stupefacenti erano appena 578». Nel 1990 la cifra era cresciuta a circa 2mila casi. «Fino ad arrivare ai 5.123 under diciotto denunciati nel 2016». Notorietà, reputazione, potere, soldi facili. Intanto l’universo di valori si capovolge. Il dossier cita l’emblematica storia di Lorenzo, un dodicenne romano incontrato dall’associazione daSud negli anni di formazione nelle scuole, «che dal suo banco di seconda media allarga le braccia per indicare l’ingombro di un chilo di marijuana e poi, con leggerezza disarmante, elenca le accortezze per stare sulla piazza senza farsi ammazzare».

«Da minorenni i romani possono fare le vedette a San Basilio e Bastogi o i corrieri a Ostia e Ponte di Nona, possono confezionare la droga a Casalotti come a Centocelle. Alla Romanina meglio di no, nel clan dei Casamonica ci sono già abbastanza figli e figliastri»

Certo, il contesto conta. I dati nazionali non lasciano spazio a troppe interpretazioni: oggi la disoccupazione giovanile è al 36,4 per cento. Nel nostro Paese ci sono 4 milioni e mezzo di persone in povertà assoluta, di cui un milione costituito da minori. Ma non ci sono solo periferie disagiate. «Il problema è che da un pezzo si diventa criminali anche con la laurea, dove c’è lo sviluppo e il lavoro, nelle famiglie oneste». Si parte dalla Calabria, terra di ’ndrine. Sempre più spesso i figli della ’ndrangheta prendono la laurea «per lavorare in settori strategici, dove all’occorrenza possono dispensare favori e avere accesso privilegiato a robusti interessi economici». La facoltà di Farmacia sembra una delle più gettonate, almeno stando al procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, «che nel marzo 2016 ha sollevato dubbi sull’acquisto di due farmacie nelle province di Milano e Torino dove compaiono gli Strangio, famiglia calabrese che ha seminato terrore e morte da San Luca, in Aspromonte, a Duisburg, in Germania». E non bisogna stupirsi se già nel 1990 il presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Ilario Pachì, ipotizzava uno scenario di studi universitari per i figli dei boss, «per essere i futuri manager delle cosche». Sullo sfondo una terra difficile, dove il contatto con la criminalità organizzata è palpabile. Basti pensare che nella sola provincia di Reggio Calabria due minori su tre vivono in un comune che negli utilizzi diciassette anni è stato sciolto per mafia. Oggi i ragazzi che sognano di diventare boss non mancano, anche tra chi non ha alcun legame di sangue con le famiglie più note. Giovani attratti dallo stile di vita dei mafiosi. «Ci sono migliaia di enfant prodige che sgomitano per fare carriera – si legge – Come Antonio (il nome è di fantasia), figlio di operaio e casalinga, che a vent’anni spadroneggiava nel comune di Africo e che oggi, a ventisei anni e con la laurea, maneggia soldi falsi a Reggio Calabria».

Da una costa all’altra, si arriva in Puglia. «La Sacra Corona Unita non è stata fatto annientata dagli arresti – continua il lungo dossier – e oggi i giovani sono sempre più spietati». I fatti di cronaca che non trovano posto sui giornali sono inquietanti e numerosi. Quindicenni armati a bordo di scooter, assalti e sparatorie. Anche qui colpisce il dato generazionale. Come scrive la Direzione Distrettuale Antimafia di Bari nel 2016: «È subentrata l’azione di soggetti emergenti dei clan, più giovani e meno professionali, animati da una subcultura mafiosa, dotati di notevole spregiudicatezza e pronti a ricorrere alle armi anche per far pagare un semplice “sgarro” o per dimostrare semplicemente la loro forza». Nuove leve che cercano di occupare nuovi spazi all’interno delle organizzazioni criminali. Gli autori di “Under” citano ad esempio il quartiere San Paolo di Bari, una delle tante periferie italiane condannate alla marginalità. «Qui i giovani scendono in strada per esercitarsi a usare le armi e controllano ogni centimetro del territorio». I legami tra minorenni e clan? «La sensazione è che il rapporto sia ancora di manovalanza, quando invece la scalata dei baby boss procede spedita» si legge. Del resto già nel 2005 la relazione sull’amministrazione della giustizia nel distretto della Corte d’appello di Bari, indicava la tendenza della locale criminalità organizzata ad «utilizzare in modo continuo e professionale adolescenti, cui insegna l’uso delle armi e che utilizza, come sicari, quando dimostrano particolari capacità».

E poi c’è la camorra. Anche a Napoli è la sete di potere che spinge tanti ragazzi a diventare violenti criminali. Il dossier si sofferma sull’imprudenza dei giovani boss. Già due anni fa i magistrati della Direzione Nazionale Antimafia avevano spiegato l’ascesa di giovani generazioni di camorristi. Ragazzi spesso senza controllo. «Minacciano per strada armati fino ai denti – si legge nel dossier – e sui social network senza eufemismi, sono ossessionati dalla rivendicazione estetica delle loro appartenenza e la spettacolarizzano». E così nascono nuovi clan composti da giovani. Teste calde che si fanno la guerra tra loro. Il dossier cita l’ultimo rapporto della DIA: le bande della nuova Camorra sarebbero una cinquantina: «Pericolosissime, senza scrupoli e senza freni». Somigliano a gang, si dividono la città per quartieri, «contendendosi con faide sanguinarie rioni, vicolo per vicolo». Ma anche a Napoli non ci sono solo giovani boss. In altre zone della città i più piccoli continuano a fare manovalanza, tra pusher e vedette. «Minorenni che si esercitano a usare le armi sparando sui tetti delle case di Borgo Sant’Antonio Abate e che sorvegliano le zone di Scampia quanto quelle di Caivano».

A Napoli si registra l’ascesa di giovani generazioni di camorristi. Ragazzi spesso senza controllo. «Minacciano per strada armati fino ai denti e sui social network senza eufemismi, sono ossessionati dalla rivendicazione estetica delle loro appartenenza e la spettacolarizzano»

«Hanno tra i dieci e i tredici anni anche i bambini siciliani che si affacciano agli ambienti criminali». Raccogliendo le parole del procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato, il dossier dell’associazione daSud racconta le peculiarità del territorio: rispetto a quanto accade in Puglia e Campania, ad esempio, i ragazzi arruolati dalla mafia siciliana sono meno sprovveduti. Questo comporta un minor rischio di faide tra minorenni. Sull’isola già a venti anni si può avere un ruolo nelle organizzazioni criminali. Anche qui tra i giovanissimi c’è chi spaccia e chi gestisce le estorsioni, ma senza una lunga gavetta nessuno agisce in autonomia. Non solo Palermo. Il legame tra ragazzini e mafia, ad esempio, è particolarmente evidente a Catania. All’ombra dell’Etna già nei primi anni Novanta il compenso per un omicidio compiuto da un minore era di mezzo milione di lire. Lo dicono i magistrati. Ma ancora nel 2015 il tribunale per i minorenni della città parlava di “criminalità minorile da primato nazionale”. Nel 2013 l’allora procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato descriveva così la carriera dei giovani mafiosi in Sicilia: «Gli uomini delle cosche selezionano i minori più violenti e capaci, e li pongono sotto la protezione di un padrino, incaricato del loro apprendistato. L’iniziazione viene in genere avviata con l’incarico di eseguire incendi e altre intimidazioni. Prosegue con il coinvolgimento nelle estorsioni. In questi casi il maggiorenne si reca dai soggetti da ricattare accompagnato dai minori, in modo da fare comprendere alla vittima che saranno questi ultimi a riscuotere le rate del pizzo».

Si parla del rapporto tra giovani e criminalità organizzata, e ormai non si può più nascondere neppure la realtà romana. Quasi sempre anche ai margini della Capitale l’esclusione sociale diventa il detonatore del fenomeno. «A Roma in troppi non vanno oltre la terza media, la dispersione scolastica della scuola secondaria superiore si attesta intorno al 25,6 per cento, con picchi più alti nelle periferie e in particolare nel municipio di Tor Bella Monaca, arcinoto per i fatti di cronaca nera». Ancora una volta il business principale è quello della droga. In città sono state contate ventitré organizzazioni dedite al narcotraffico. «Da minorenni i romani possono fare le vedette a San Basilio e Bastogi o i corrieri a Ostia e Ponte di Nona, possono confezionare la droga a Casalotti come a Centocelle. Alla Romanina meglio di no, nel clan dei Casamonica ci sono già abbastanza figli e figliastri». A volte i ragazzini diventano le vittime di qualche regolamento di conti. Senza contare i maggiorenni, nel 2015 sono stati gambizzati in tre: uno a Torrenova e due a San Basilio. E anche nella Città Eterna, come altrove, non mancano i giovanissimi morti ammazzati.

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