Dicono che il motore della nostra epoca sia il cambiamento. Un divoratore di certezze che scandisce le nostre esistenze in maniera sempre più rapida. Non lascia nemmeno il tempo di farsi afferrare che ha già cambiato direzione. Lo si sperimenta sul lavoro, nelle relazioni personali, persino nei gusti mai tanto variabili da un anno con l’altro. Anche in politica. Ma il cambiamento dei tempi nuovi è qualcosa che si radica in profondità, che getta radici anche sotto la crosta spesso fragilissima della vita umana. E’ la natura stessa che sta modificando i propri ritmi, sfidata dalla deforestazione e dai mutamenti di clima. Persino la sua colonna sonora non è più quella di sempre. Per ogni specie che muore o si sposta dal suo habitat naturale, lo spartito cambia e non tornerà più quello di prima. Per paradosso, si tratta di un cambiamento silenzioso, e per questo ancora più sorprendente in una società sopraffatta dal rumore. David Monacchi, musicista marchigiano diventato ricercatore nel campo del suono, da quindici anni registra la colonna sonora (più correttamente la ‘polifonia’) delle foreste tropicali, per salvarla su una memoria digitale. “Siamo di fronte a un ecocidio“, avverte. La vittima del delitto è il coro della natura.
Quello di Monacchi è di fatto un grande archivio in costruzione a cui può attingere la scienza, ma che potrà ispirare anche gli artisti come lui e, soprattutto, le future generazioni sempre più urbanizzate. Registrare la natura prima che cambi lo spartito è una missione, oltre che un istinto. La prima volta Monacchi è partito nel 2002, aggregandosi a una missione di Greenpeace. Destinazione, Amazzonia. Se avete tempo di immergervi nella natura primordiale, ascoltate questa registrazione: sono le 9 del mattino del primo marzo 2002, la natura che si risveglia. Da allora l’équipe è aumentata, così come i luoghi di ricerca e le relative registrazioni: si sono aggiunti i viaggi in Africa e nel Borneo. I link degli audio sono al sito di Fragment of Extinction, il progetto no-profit che Monacchi sta curando e che comprende anche un teatro mobile che porta nei musei l’esperienza dell’ascolto.
Musicista marchigiano diventato ricercatore nel campo del suono, da quindici anni registra la colonna sonora delle foreste tropicali, per salvarla su una memoria digitale. “Siamo di fronte a un ecocidio”, avverte. La vittima del delitto è il coro della natura
Ogni missione richiede un anno di preparazione, compresa la ricerca di fondi. Poi si parte, si va nei luoghi del pianeta ancora disabitati dall’uomo e si piazzano in un punto decine di microfoni tridimensionali per arrivare alla migliore registrazione di ventiquattrore di vita naturale. L’ultima volta i canali audio sono stati 38. Una cifra piccola, se la si confronta con quella che qualcuno ha già definito la sesta estinzione di massa, con 8,7 milioni di specie a rischio. “Ci sono due modi per ascoltare la musica – spiega Monacchi a Linkiesta -. Quello analitico, che ci permette di separare i suoni. E quello sintetico, che implica forti competenze cognitive. L’ascolto di un paesaggio sonoro è di tipo sintetico: si ascolta l’insieme degli eventi. E’ questo tipo di ascolto che noi sollecitiamo, per cercare di ritrovare l’ecosistema allo stato originario”.
Che cosa l’ha spinta a fare di questo una professione?
Per me è stata una cosa totalmente intuitiva. Ero giovanissimo, quando ho iniziato a studiare la musica e ho avvertito la necessità di raccogliere i suoni del nostro Appennino centrale, dove sono nato. Sono di Urbino, e nel Montefeltro fino a un po’ di tempo fa era ancora possibile registrare questa natura che produce suoni sistemici, coordinati, interagendo con una decina di specie animali che formano una polifonia, senza essere disturbati da troppa presenza umana. La prima volta che sono andato in Amazzonia, questa possibilità si è elevata all’ennesima potenza. Le decine di specie sono diventate migliaia di specie, e ho constatato che questi suoni stanno cambiando.I suoni della città ci hanno sottratto la familiarità con i segnali della natura.
Certo, c’è una grande diversità fra gli ambienti naturali e gli ambienti antropizzati: siamo finiti a vivere in discariche acustiche, questo sono le nostre città. Qui il 99% dei suoni che arrivano al nostro orecchio non portano alcun tipo di messaggio. Sono suoni bianchi. In natura, invece, tutti i suoni hanno una funzione specifica. Significano territorio, vita, accoppiamento e molto altro. L’onnipresente rumore bianco rovescia la nostra prospettiva acustica, così non sappiamo più sentire che cosa accade lontano da noi.Che cosa è cambiato in questi 15 anni?
Chiariamo una cosa: noi non vogliamo capire che cosa sta cambiando facendo un’analisi quantitativa, che durerebbe anni. Di questo dato, del resto, non ce ne faremmo nulla: l’estinzione è in atto, con un tasso che si teme sia già 12.000 volte superiore a quello base. Gli ecosistemi stanno cambiando. E noi vogliamo salvare i frammenti che stanno andando perduti, li vogliamo digitalizzare e archiviare per le prossime generazioni, che altrimenti non ne avrebbero memoria.Lei come ha vissuto questo cambiamento?
Torno a parlare dei miei Appennini: ci sono stagni che erano pienissimi di specie diverse di rane, che oggi non ci sono più. Anche la presenza di insetti è notevolmente inferiore. E lo si sente proprio dalla polifonia della natura che è cambiata. Noi stiamo cercando le tracce di quei suoni della natura che stiamo perdendo.E come lo fate?
Lavoriamo con uno sforzo enorme per utilizzare le nuove tecnologie che ci permettono di registrare con 38 microfoni, che corrispondono a 38 canali audio simultanei, interi cicli circadiani di 24 ore, realizzando ritratti sonori che possono avere valenza estetica ma anche di carattere scientifico. Si tratta di salvare pezzi della polifonia naturale: fra due o tre generazioni non sapremo più quale sia stato il suono del mondo dei nostri progenitori.Quanto materiale avete raccolto finora?
Ho qui diversi terabyte, migliaia di ore di registrazione multicanale…E quanto tempo vi serve per prepararvi a ogni missione?
Solitamente la preparazione di una missione dura anche un anno. Poi il viaggio in sé dura dalle quattro alle sei settimane. E’ quello il momento della campionatura dei suoni.Ma come si è abituato a vivere immerso alla natura nella sua forma primordiale?
La cosa è avvenuta gradualmente negli anni, come le raccontavo. Certo non è facile abituarsi a un paesaggio complesso e pieno di pericoli, che in parte è sconosciuto anche alla scienza. Noi cerchiamo aree con la più alta biodiversità. Essere lì in mezzo è un’esperienza molto forte e la cosa importante è proprio il sentirsi parte di quella biodiversità.Attraverso la musica della natura…
La vista in quelle foreste quasi impenetrabili serve a poco. L’odorato lo abbiamo quasi perso, noi uomini. Il tatto, poi, serve ancora meno: in quei posti, meno si tocca e meglio è. Così resta l’udito. L’udito è l’organo che dà prospettiva, che rende la complessività dell’ambiente in cui ci troviamo.Di notte, che si prova?
Rimanere soli, quando si fa notte, significa essere investiti da una quantità di suoni incredibile. Suoni diversi fra loro, molti persino sconosciuti. La paura viene, quando viene, perché sai di essere in un luogo in cui i pericoli non sono controllabili. Nello Yasuni, per ogni ettaro quadrato c’era la possibilità di incontrare 148 tipi di serpente. Però quello che facciamo è sempre nei confini della ricerca biologica. Non andiamo a caso, ci facciamo accompagnare dalle guide locali, che sanno dove e come muoversi. E dove non si può proprio andare.@ilbrontolo