La Lega di Salvini va a congresso. E ha un problema di identità

Scontato il largo sostegno alla linea sovranista del segretario. Ma proprio quest'anno Lombardia e Veneto terranno gli agognati referendum per l'autonomia, che ricordano a tutti una cosa: i vecchi militanti coltivano ancora il sogno di un Nord libero dall'Italia

Il federalismo è una faccenda da estremisti. I leghisti che abbiano ascoltato questo giudizio pronunciato dalla ‘alleata’ Marine Le Pen nell’ultimo, tesissimo, dibattito televisivo con Emmanuel Macron per le presidenziali in Francia potrebbero aver fatto un salto sulla sedia. Ma non è scontato che lo abbiano fatto tutti. La Lega Nord che si appresta a celebrare il suo congresso federale a Parma il 21 maggio è infatti un partito che ha una doppia anima. E quella nordista è oggi la più debole delle due. E’ l’identità secondaria, che sta cercando di non essere spazzata via dalla retorica imperante contro l’immigrazione e l’integrazione europea, che ha finito per monopolizzare la coscienza leghista. Il sogno della Padania indipendente – che resta il primo punto dello statuto del partito fondato da Umberto Bossi – è stato messo in secondo piano dalla linea sovranista a vocazione nazionale impressa alla Lega da Matteo Salvini. Che di questi tempi porta più consensi ed è largamente maggioritaria. Tutto finito? No. Perché a dispetto dei numeri, questa contraddizione fra una forza politica nata per rivendicare la diversità delle terre del Nord dallo Stato nazionale e un programma politico improntato al neo-patriottismo è destinata comunque a durare. Perché da qui al prossimo inverno, la Lega si ritroverà a organizzare la sua prima, vera campagna elettorale nazionale proprio mentre si prepara ad affrontare anche i primi referendum (consultivi) sull’autonomia di Lombardia e Veneto, dopo trent’anni di battaglie per il Nord. E’ la proverbiale ironia della storia che bussa alla porta. Ma è anche il risultato della trasformazione della Lega in un partito ancora più personale e personalizzato di quanto non lo sia stato con Bossi.

“Quelli che guidano la Lega oggi confondono il termine federalismo con fascismo, che sono due cose diverse. Un federalista non potrebbe mai essere amico della Le Pen”. Giuseppe Leoni, 70 anni, è stato fra i soci fondatori della Lega Lombarda, nel 1984, insieme a Bossi. Un anno dopo è diventato il primo consigliere comunale del Carroccio eletto nella terra natia, a Varese: debuttò in Aula con un discorso letto in dialetto bosino. Il nemico erano Roma ladrona e i suoi sprechi. “La nostra bandiera – ricorda l’ex parlamentare parlando con Linkiesta – è il territorio, non il tricolore. Il federalismo è una cosa seria. Ma l’obiettivo degli attuali dirigenti della Lega non è avere un pensiero politico, ma procacciarsi voti”. E’ la stessa convinzione che Bossi va ripetendo in queste settimane in cui si è impegnato fisicamente a raccogliere firme per Gianni Fava, sfidante di Salvini in vista delle primarie leghiste del 14 maggio. Secondo il presidente-fondatore, “Salvini ha diviso la Lega, l’ha trasformata in un partito di seggiolai, non ha capito che siamo nati per la questione settentrionale e che è una follia andare al Sud”. Leoni, che ha firmato a sua volta per Fava e la linea nordista, la dice così: “E’ giusto instillare l’idea federalista in tutto il Paese, ma se la Lega va a prendere i voti del Sud perderà quelli del Nord. Funziona come una bilancia, è una cosa semplice che dovrebbero capire tutti. Ma oggi i giovani hanno uno spirito diverso, vivono un mondo diverso. Alla fine, ogni stagione ha i suoi uomini”.

“Quelli che guidano la Lega oggi confondono il termine federalismo con fascismo, che sono due cose diverse. Un federalista non potrebbe mai essere amico della Le Pen” – Giuseppe Leoni, fondatore della Lega Lombarda insieme a Umberto Bossi

Proprio così. Prima ancora che la linea, è la stagione a essere cambiata, che lo vogliano o meno i protagonisti di ieri e di oggi. Bossi con il suo ciuffo ribelle sfidava Roma negli anni Ottanta. Conquistava la capitale nel ventennio berlusconiano. Invocava l’autonomia, poi minacciava la secessione, infine scriveva una riforma federalista dello Stato che non ha mai visto la luce. In mezzo anche la malattia, che lo ha colpito nel 2004. Poi, nel 2012, sono arrivati gli scandali sull’uso dei fondi della Lega da parte della sua famiglia, che hanno costretto Bossi a lasciare la segreteria leghista a Roberto Maroni. Cinque anni dopo la sua caduta, la stagione politica è cambiata in profondità. Ha la velocità dei Salvini e dei Renzi. L’inafferrabilità della rete di Grillo, ben diversa dal vitalismo bossiano, lanciato a duecento chilometri all’ora in autostrada per tenere comizi notturni in un punto o nell’altro della mitica Padania, quando si mandavano ancora le cartoline dal mare. Fra una stagione e l’altra, c’è stata soprattutto la grande crisi economica mondiale, che ha rotto gli equilibri fra destra e sinistra, ha ucciso carriere politiche che sembravano eterne, ha stuzzicato gli umori di un elettorato che si fida sempre meno delle deleghe alla politica. E probabilmente, dice Salvini, ha unito i destini di tutta ltalia, da Nord a Sud. Il prima, lo si incrocia ancora negli incontri di Bossi: qualche decina di militanti alla volta, molti gli anziani che erano giovani ai tempi del crollo della prima repubblica, fazzoletto verde al collo, tutti nemici di Roma, la mano sul cuore ad ascoltare il Va’ Pensiero, alla fine non così disgustati dall’Europa unita. Il dopo, lo si vede attorno a Salvini, quando non è in tv: centinaia, migliaia di persone, soprattutto giovani, che sono a caccia di un selfie, che si sentono minacciate dall’impersonalità dell’Unione Europea, dall’immigrazione di massa, che non aderiscono a una causa ideologica, che non credono a una parola di quello che scrivono i giornalisti e hanno una gran voglia di dire la loro. Su Facebook.

Lorenzo Fontana è uno dei colonnelli della Lega salviniana. Veneto, 37 anni, è il capo-delegazione al Parlamento europeo. Fontana è quello che tiene i rapporti con gli alleati euroscettici, a partire proprio dalla Le Pen. Ruolo strategico, perché il nuovo credo non parla più di Roma ladrona o di Nord Italia contro Sud. Parla di uscire dall’euro e di chiudere i rubinetti dell’immigrazione islamica, parla di sovranità nazionale e di alleanze patriottiche transnazionali. Secondo Fontana, le due Leghe che emergono dal dibattito pubblico in realtà non sono in contraddizione. Sono, anzi, la stessa cosa, “se c’è la buona fede per riconoscerlo”. “Innanzitutto – risponde a Linkiesta – non ci definirei sovranisti. E nemmeno nazionalisti. Mi piacerebbe che ci chiamassero identitari. Perché più che fra Stati nazionali, la sfida del futuro è fra la globalizzazione che omologa e le identità che distinguono le comunità locali”. Salvini la va spiegando da tempo così: rispetto a trenta, vent’anni fa, “adesso a Roma non si decide più nulla, occorre prima liberarsi tutti insieme dall’Unione Europea e poi ricostruire un’Italia federale unita nelle diversità”. Per Fontana, dunque, “se la mettiamo sul piano delle identità, ci rendiamo conto che l’Italia non ne ha mai avuta una unica, è un Paese con una serie di identità molto differenti. Ed è stato grazie a queste differenze che l’Italia è stata grande nella storia”. “Per questo – prosegue l’europarlamentare – dico che la questione identitaria può mettere insieme il Nord e il Sud. E sempre per questo mi arrabbio quando mi chiamano nazionalista o, peggio, fascista. Perché il nazionalismo come il fascismo sono state forme di omologazione, in cui non possiamo riconoscerci”. Ma la fronda nordista dentro il partito? “Il messaggio che stiamo portando c’è sempre stato all’interno della Lega, per esempio quando Bossi ha unito le leghe del Nord e ha cercato di fare quelle del Centro e del Sud. Chi dice il contrario penso che voglia fare una battaglia più contro Salvini che contro la sua linea, e per questo usano l’argomento Le Pen”.

“Il messaggio che stiamo portando c’è sempre stato all’interno della Lega, per esempio quando Bossi ha unito le leghe del Nord e ha cercato di fare quelle del Centro e del Sud. Chi dice il contrario penso che voglia fare una battaglia più contro Salvini che contro la sua linea” – Lorenzo Fontana, europarlamentare

Oltre alle passione delle idee, c’è ovviamente anche una questione pratica di destini personali, e di numeri, dentro la Lega. Nel giro di pochi mesi, si voterà per le elezioni Politiche e le Regionali in Lombardia. Le candidature le decide chi comanda. Come sempre, ma stavolta c’è un partito che i sondaggi danno puntato fra il 10 e il 15% dei consensi, al pari di Forza Italia. Cinque anni fa si faticò a raggiungere il 4%. La fronda nordista è vista dai salviniani come un tentativo ben mascherato di mantenere una posizione di potere dentro la Lega. I fedelissimi di Salvini sono invece considerati avidi di posti e poco propensi a concedere spazio, anche mediatico, a chi ha un po’ meno intimità con il leader. Nel mezzo, la vecchia guardia, con il solito Giancarlo Giorgetti a fare da equilibratore. C’è Bossi, che rischia per la prima volta di non essere ricandidato in Parlamento dal 1987 ed è l’unico a essersi schierato con lo sfidante Fava. E ci sono i governatori Roberto Maroni e Luca Zaia, che soffrono la frenesia di Salvini ma non possono fare a meno dei suoi voti. I tre vogliono spingere il segretario a una linea più pragmatica, meno solitaria e che contempli anche una nuova alleanza con Silvio Berlusconi. Soprattutto sostengono l’utilità di mantenere un radicamento territoriale al Nord, l’unico modo per evitare che la Lega diventi solo un partito di protesta, destinato a rimanere senza voti una volta che il vento popolare avrà cambiato direzione. Non a caso sono stati Maroni e Zaia a preparare e annunciare per il 22 ottobre i referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto. Rimarcando la contraddizione di fondo del loro leader.

“Giustamente valorizzano il proprio radicamento nelle loro regioni, ma il tema dell’autonomia del Nord non è più centrale nella Lega”, osserva Roberto Biorcio, docente di Sociologia all’università Bicocca di Milano, che da anni studia le evoluzioni del partito. “L’elettorato leghista – risponde Biorcio a Linkiesta – si è già adattato al discorso di Salvini, che ha preso una Lega al suo minimo storico, dopo il 2012, e ha recuperato voti anche in altre aree politiche. Chi non condivideva la sua linea, se ne è già andato, e ho l’impressione che Bossi non avrà molto seguito”. Biorcio sottolinea che in questo modo Salvini ha portato il partito più a destra, ma sottolinea anche come dato interessante che, a dispetto di questa collocazione più estrema e a dispetto dell’indebolimento del messaggio originario, i temi della Lega di oggi sono in sostanziale continuità con quelli della Lega di ieri. “E’ stato messo in sordina il discorso sull’indipendenza – spiega – ma la battaglia contro l’immigrazione è sempre stata forte anche con Bossi, prima c’erano i meridionali. Poi la Lega ha sempre avuto posizioni critiche verso l’Europa. E lo stesso si può dire del messaggio anti-establishment”.

“L’elettorato leghista si è già adattato al discorso di Salvini, che ha preso una Lega al suo minimo storico, dopo il 2012, e ha recuperato voti anche in altre aree politiche. Chi non condivideva la sua linea, se ne è già andato. E ho l’impressione che Bossi non avrà molto seguito” – Roberto Biorcio, sociologo

Una Lega camaleontica che tiene insieme tutto e il contrario di tutto? Può essere. Almeno così appare. Ma c’è un elemento di fondo che va tenuto in grande considerazione per capire perché le contraddizioni non portino a drammatiche rotture. Come tutti gli altri partiti o movimenti che hanno successo in questa fase politica, anche la Lega non sfugge alla trasformazione in un partito personale. Una forza politica che cresce o va in crisi a seconda dell’energia e degli indici di gradimento del proprio leader. “La personalizzazione della Lega è forte – afferma il professor Biorcio -. Salvini che va a dormire al Cara di Mineo fa quello che un tempo avrebbero fatto le guardie padane ma come impegno collettivo”. Il boom di consensi del Carroccio è un boom di consensi a Salvini. Che se fa il nordista perde voti. Ma che se non fa anche il nordista perde la fiducia dei militanti più affezionati, quelli che al sabato mattina, anche in inverno, si alzano all’alba per montare i gazebo. Eccola la contraddizione che torna, la contraddizione che solo una leadership iper-personalizzata può governare. Dopo il congresso si vedrà tutto il resto. Le alleanze. I simboli. Gli screzi di un partito che, in fondo, si comporta sempre come una famiglia. E che magari, un giorno, tornerà pienamente nordista, se la l’altra linea, quella nazionale, dimostrerà di non portare più voti.

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