Ora è ufficiale: l’Italia è maglia nera per vaccinazioni. Non solo tra i paesi più all’avanguardia dell’area europea, ma anche se messa a confronto con i più arretrati Ruanda e Tanzania. È questo il risultato emerso dall’ultimo report del World Health Organizazion (WHO) sullo stato della salute nel mondo. Lo studio tiene conto degli obiettivi raggiunti in ambito sanitario, le cause principali delle malattie più diffuse e la presenza e il funzionamento dei servizi sanitari in 194 paesi membri del WHO.
Secondo l’analisi, nel 2015 la copertura generale a livello globale delle dosi di vaccini DTP3 (Difterite-Tetano-Pertosse), in nome di un’immunizzazione totale per i bambini, è stata dell’86%. In Italia però la copertura di vaccini si ferma al 93%, in una posizione evidentemente inferiore rispetto ai risultati raggiunti dagli altri paesi dell’area eruopea, come Belgio, Bielorussia e Repubblica Ceca (99%), ma anche in rapporto a paesi africani in via di sviluppo come Ruanda e Tanzania, che registrano una media del 98%.
In generale, si può dire che a livello globale la media in percentuale della spesa governativa destinata alla sanità è dell’11,7% nel 2014. A livello regionale, però, si rivela la prima differenza tra la media registrata nei paesi dell’area del Mediterraneo orientale (8,8%) rispetto ai risultati della regione americana (13,6%). In questo frangente, l‘Italia si trova al fanalino di coda, con solo il 13,7% della spesa dedicata alla sanità e ai servizi sanitari essenziali, in concomitanza col Burundi al 13,2%, e ben lontana dalle medie europee, se si considera che la Svizzera registra il 22,7%, i Paesi Bassi il 20,9% e la Germania il 19,6%.
Dal 2005 al 2015 circa il 40% dei paesi hanno meno di un fisico ogni mille abitanti e circa la metà dei paesi presentano meno di 3 infermieri e ostetriche ogni mille abitanti. Anche in questo caso l’Italia risulta avere risultati non gratificanti, se si considera che la densità di lavoratori professionali impiegati nella sanità sono 104,2 unità su un totale di 100 mila
Vi sono però altri settori in cui l’Italia non eccelle, come ad esempio lo sviluppo di strutture d’assistenza sanitaria per la ricerca medica e cure di base analizzate in dollari pro capite nel 2014. Se in Africa, la Liberia raggiunge i 29,13 $ a testa, l’Italia versa meno di 0,03% $ a persona. In questo caso, i dati del panorama generale registrati dal 2007 al 2014 mostrano che la disponibilità media delle cure essenziali selezionate nel settore pubblico si attesta soltanto al 60% nei paesi a reddito basso e al 56% nei paesi a reddito medio basso. Inoltre, l’accesso alle cure per malattie croniche e non comunicabili ha registrato risultati anche peggiori rispetto a quelle per malattie acute.
Ma come se la cava la forza lavoro impegnata nella sanità? Secondo il report è distribuita in modo disomogeneo a livello internazionale. Inoltre, i paesi WHO con il maggior livello di malattie espresso in termini di anni di vita persi a causa della disabilità presentano le densità più basse di lavoratori sanitari. A ciò si aggiunge il fatto che dal 2005 al 2015 circa il 40% dei paesi hanno meno di un fisico ogni mille abitanti e circa la metà dei paesi presentano meno di 3 infermieri e ostetriche ogni mille abitanti. Anche nei paesi con maggiori densità di lavoratori sanitari, la forza lavoro è spesso iniquamente distribuita, in particolare sono le aree rurali e difficili da raggiungere ad essere meno equipaggiate rispetto alle città e aree urbane. Anche in questo caso l’Italia risulta avere risultati non gratificanti, se si considera che la densità di lavoratori professionali impiegati nella sanità sono 104,2 unità su un totale di 100mila, rispetto ai 219.3 della Svizzera, i 218.3 della Norvegia e i 176 della più vicina Germania.
Tra gli altri settori analizzati i rischi ambientali risultano avere un impatto rilevante sulla sanità a livello globale. In particolare, 3 miliardi di persone riscaldano le proprie abitazioni e cucinano con combustibili solidi (cioè con l’uso di legno, rifiuti, carbone o concime) in focolari aperti e fornelli non impermeabili. L’uso di questi mezzi inefficienti porta ad alti livelli di inquinamento atmosferico. Nel 2012, ciò ha causato 4,4 milioni di morti su scala internazionale, di cui la maggior parte sono donne e bambini con il 60% dei decessi. Inoltre, l’87% degli stessi è avvenuta nei paesi a basso e medio reddito. Nell’insieme, l’inquinamento atmosferico sia in spazi chiusi sia all’aperto ha causato 6,5 milioni di morti (l’11,6% dei decessi globali) nel 2012. L’Italia non fa eccezione, tant’é che le morti causate dall’inquinamento dell’aria coinvolgono 35.2 persone ogni 100mila e i livelli di polveri sottili (PM2.5 e PM10) in città raggiungono 18.2 mg/m3, rispetto ai 5.9 mg/m3 della Svezia, i 6mg/m3 della Liberia, 7mg/m3 in Canada e 8mg/m3 negli Stati Uniti.
Sebbene ci siano dei risvolti positivi nelle statistiche riguardanti l’approvigionamento di acqua potabile e l’igienizzazione, in un panorama globale piuttosto negativo – nel 2015 la copertura di servizi di rifornimenti d’acqua potabili è risultata bassa, con una stima del 68% nelle aree urbane e solo il 20% nelle zone rurali -, o per ciò che riguarda l’avvelentamento accidentale da agenti chimici – che al contrario ha causato più di 100 mila morti a livello internazionale -, l’Italia non può considerarsi ancora un paese all’avanguardia in ambito sanitario.