Tratto dall’Accademia della Crusca
Probabilmente non molti si saranno imbattuti prima d’ora nella parola bambinità. Si tratta infatti di un termine non comune per frequenza e uso. Per avere un’idea, sia pure solo indicativa, della sua diffusione si consideri che le attestazioni in rete non arrivano a seicento: pochissime, dunque, considerando l’imponente quantità di testi a cui motori di ricerca come Google attualmente attingono. Nonostante il basso uso, la parola non è un neologismo dell’ultima ora e mostra di avere una sua vita e una sua vitalità a partire dagli ultimi decenni del ’900. Inizialmente l’ambito di pertinenza di bambinità sembra essere quello psicologico, ma la parola “migra”, o comunque compare, anche in altri settori più e meno confinanti o comunicanti. Gran parte delle occorrenze di bambinità si trova in testi di psicologi, pedagogisti, insegnanti, formatori, educatori, pediatri, in recensioni di libri per l’infanzia, ma, al di là dei recinti settoriali, la parola figura sporadicamente anche in testi letterari, articoli giornalistici e, da ultimo, in blog e forum di argomento vario.
Che cosa si intende per bambinità? Prima di sfogliare i dizionari o esplorare i testi in cui la parola compare, si può dedurre il significato generale di bambinità dalla sua struttura.
Aggiungendo il suffisso -ità a un sostantivo, si ottiene un nome astratto – più precisamente un nome di qualità – il cui significato fa riferimento “all’essenza, alla qualità essenziale del sostantivo base” (Rainer in GROSSMANN – RAINER, p. 296). In italiano, per la verità, non sono molti i nomi formati in questo modo: nella nostra lingua, generalmente, i nomi di qualità si formano a partire da aggettivi più che da nomi, ma il “meccanismo” di base è analogo: come virilità significa ‘l’essere virile’ e magnanimità ‘l’essere magnanimo’ così bambinità è da intendersi come ‘l’essere bambino’ o meglio, parafrasando Rainer, come ‘l’essenza, l’insieme delle qualità essenziali proprie del bambino’.
La prevalente settorialità e la bassa frequenza d’uso sono, probabilmente, fra i motivi per cui non tutti i dizionari registrano la parola. Il termine tuttavia non è sfuggito alla lessicografia contemporanea, tant’è che compare nei due più ampi dizionari della lingua italiana ad oggi disponibili: il GRADIT la inserisce nel vol. VIII (Nuove parole italiane dell’uso 2) del 2007 e il GDLI nel Supplemento 2009. Bambinità è inoltre presente in due dizionari monovolume tra i più diffusi e autorevoli, come il Devoto-Oli, fin dall’edizione del 1990, e il Sabatini-Coletti a partire dalla prima edizione del 1997.
Fra le definizioni fornite dai dizionari, molto simili fra loro, riportiamo quella del Devoto-Oli, che per primo ha inserito la parola nel suo lemmario. Nel Devoto-Oli, alla voce bambinità si legge “la condizione del bambino con le relative implicazioni, specialmente psicologiche”. Come il Devoto-Oli anche gli altri dizionari marcano, più o meno esplicitamente, la parola come di ambito psicologico.
In effetti, alcuni psicologi – non tutti, non sempre – usano la parola bambinità per indicare la condizione del bambino, il suo spazio/universo fisico e mentale, per individuarlo come autonomo e specificamente caratterizzato in opposizione a quello dell’adulto.
Dall’ambito psicologico la parola viene assorbita e rilanciata in settori in vario modo contigui. Un esempio interessante dell’uso di bambinità si trova, per esempio, in un saggio del 1999 di Anna Maria Serafini, politica impegnata nella promozione dei diritti dei bambini e degli adolescenti:
La seconda [tendenza della società contemporanea] è quella dell’ingessatura, anche istituzionale, di tutto il processo di vita dei bambini, sempre più segnato da tappe, ambienti, esperienze e perfino amicizie rigidamente precostituite dagli adulti e sottoposte alla loro incessante vigilanza.
Può essere drammatica la perdita di bambinità in una società tanto povera di bambini come la nostra e fortissima la torsione che subisce la genitorialità, sulla spinta di preoccupazioni crescenti per i figli che il continuo e immotivato tam-tam degli allarmi tende a inibire anziché a liberare. È un paradosso solo apparente: pochi bambini non sono in grado di preservare il territorio dell’infanzia. (Anna Maria Serafini,“Noi non siamo la fonte del problema siamo la risorsa necessaria per risolverlo”, in Bambini ombra. Bambini in ombra, a cura di M. R. Parsi, Roma, Edizioni interculturali, 2004, pp. 15-42).
La stessa relazione semantica di opposizione bambino-adulto, realizzata per l’appunto anche attraverso i termini astratti bambinità-adultità, si ritrova in testi di maestri, insegnanti, educatori, studiosi a vario titolo dell’infanzia. È significativo che in questi contesti la parola bambinità venga quasi sempre usata per descrivere una condizione negata, soffocata o fraintesa – nei suoi tempi, luoghi, bisogni specifici – perché interpretata in una prospettiva adultocentrica. Ancora un esempio fra gli altri, tratto dalle riflessioni di una maestra:
Poi c’è tutta la questione dell’anticipo [scolastico] che, come sostengo da tempo, tiene conto soltanto della frenesia degli adulti, non certo dei bambini e delle loro sacrosante esigenze di calma e relax, sì, proprio di rilassamento, distensione, mancanza di impegni pressanti, spazio per trastullarsi oziosamente dando libero sfogo alla “bambinità”! (Claudia Fanti, Bambinità e maestrone, Scuola&educazione, 30 aprile 2003; ora in 2014, odissea nella scuola, Lecce, Youcanprint, 2014).
Ciò che appare evidente dai contesti d’uso è che la parola bambinità ha una connotazione neutra o positiva. È infatti usata per indicare una condizione, un modo d’essere proprio dei bambini visti nella loro dimensione specifica: come soggetti dotati di caratteristiche e attitudini proprie, anche positive (come la schiettezza, la genuinità, la spontaneità, ecc.), e non semplicemente come adulti potenziali, descrivibili solo per sottrazione, per assenza di qualità “adulte” come la maturità, la riflessività, ecc.
In questo senso bambinità mantiene la sua connotazione positiva anche quando è usata in riferimento agli adulti. In un testo del 1999 che riguarda, appunto, l’educazione degli adulti si legge:
Perciò Dewey dice che sia il bambino che l’adulto devono essere impegnati a crescere: il bambino deve crescere in maturità, capacità analitica, ma l’adulto deve crescere in childlikeness, bambinità, sotto il profilo dell’apertura mentale, dell’empatia, ecc. (Maurizio Lichtner, Modalità di apprendimento degli adulti nella formazione continua. Problemi di valutazione, in Educazione degli adulti. Dalle 150 ore ai centri territoriali permanenti a cura di M. Boriani, Laboratorio IRRSAE Marche, Roma, Armando, 1999, pp. 47-56: 53).
Nell’esempio appena citato il termine bambinità compare come traducente dell’inglese childlikeness. E in effetti, consultando l’Oxford English Dictionary, si ha conferma che la parola childlikeness in inglese è attestata, dalla metà del ’700, in riferimento a un adulto che mostra di avere/mantenere le qualità positive proprie di un bambino, il suo essere positivamente childlike ‘come un bambino’. Proprio questa connotazione positiva contraddistingue childlikeness rispetto a childishness, parola preesistente, che ha un’accezione neutra se riferita ai bambini, ma ha anche un secondo significato connotato negativamente: childishness in riferimento a un adulto significa, infatti, ‘l’essere infantile’ nell’accezione di immaturo, fatuo, irrazionale, superficiale. In italiano abbiamo diversi equivalenti di childishness in questo secondo significato: per esempio puerilità, infantilismo o anche il meno comune infantilità, mentre lo spazio semantico occupato da childlikeness e dall’accezione neutra di childishness non è stato lessicalizzato, non ha avuto, cioè, un nome corrispettivo in italiano fino alla seconda metà del ’900, con l’emergere di bambinità.
A essere precisi, la forma bambinità compare anche prima in italiano. Nel corpus di Google Libri si trovano, infatti, sia pure isolate, due attestazioni piuttosto antiche di bambinità, una seicentesca e una ottocentesca.