La sinistra e i migranti, una relazione complessa. Divisi fra il mantra dell’accoglienza e il pugno duro di Minniti. Dall’innamoramento per Macron, durato meno dell’infatuazione per la fidanzitina francese conosciuta a sedici anni al mare, all’Austria, bastione rosso-verde contro i neofascisti. Ricordate quando si tirò un sospiro di sollievo per aver bloccato gli eredi di Haider? Bene, oggi la realpolitik di Vienna vira a destra. Per questo, la complessa dinamica sinistra-migranti è essenzialmente una delle linee di faglia più significative fra la sinistra radicale e quella riformista, ma anche un effetto della complessa sintesi fra sinistra e liberalismo, che le “terze vie” hanno incominciato, anni fa.
La sinistra radicale, che non conosce le contingenze del governare qui ed ora, che preferisce perdere che perdersi e testimoniare la sua diversità antropologica, è pro migranti, senza se e senza ma. Perché lo scontro è fra capitale e lavoro, non proletari autoctoni e stranieri. Anzi, secondo vari terzomondisti, è dal IV mondo che può provenire la rivoluzione, non dal molle e debosciato Occidente. Largo, dunque, a tutte le migrazioni, marxianamente un prodotto del capitale, attraverso il quale, lo stesso capitale, pone le condizioni per un suo superamento in senso rivoluzionario e comunista. Si tratta di un approccio tributario del positivismo, per il quale i comunisti devono accelerare le contraddizioni del capitalismo, tanto bandiera rossa trionferà. Dall’altra parte, c’è la sinistra riformista: quella che ha elaborato il lutto del Sol dell’Avvenir, che cerca di conciliare solidarietà e capitalismo e che, anzi, crede che le liberalizzazioni, governando i costi sociali che producono, possano portare un aumento generalizzato della ricchezza perché “socialismo è ridistribuire ricchezza, non povertà”, come diceva Olof Palme. È una sinistra che vuole governare per migliorare il reale; una sinistra che non vuole pedagogizzare, ma che deve fare i conti con gli elettori e che, in generale, sono allarmati dai migranti e dal multiculturalismo. Da Macron all’Austria, leader riformisti ma realisti fanno i conti con il dato che le maggioranza dei loro elettorati è preoccupata da questi fenomeni.
È una sinistra che vuole governare per migliorare il reale; una sinistra che non vuole pedagogizzare, ma che deve fare i conti con gli elettori e che, in generale, sono allarmati dai migranti e dal multiculturalismo
Ecco che alla sinistra riformista si palesano davanti nuove sfide: non quelle del materialismo storico, ma quelle del liberalismo di cui essa è diventata alfiere. Le migrazioni, infatti, non sono solo un fenomeno da approcciare in nome di valori ed idealità inclusive e cosmopolite – l’obbligo morale di accogliere gli sfortunati o il diritto alla libera circolazione delle persone, corollario alla libera circolazione di capitale -, ma una precisa politica di liberalizzazione del mercato del lavoro che, come tutte le deregulation, ha dei costi sociali che la politica dovrebbe indennizzare. I migranti economici (ma anche quelli che fuggono dai conflitti) sono infatti frutto di processi di globalizzazione di una economia che è sempre più transnazionale e che, anzi, travolge l’angustia degli Stati nazione, sorti con la Pace di Westfalia e, probabilmente, oggi, giunti al capolinea. Dare risposte locali a problemi globali sarebbe un errore. Le migrazioni, allora, lungi dall’essere “i mille colori delle diversità e dell’arcobaleno”, come nella retorica di chi estetizza fenomeni economici complessi, corrispondono, da un lato, a un processo di periferizzazione di alcune parti del pianeta – che vale per intere nazioni, ma anche per le nostre campagne -, dall’altro, ad un aumento della competizione al ribasso, in Europa, dove i lavoratori bianchi competono con lavoratori stranieri a basso costo: compressione salariale e costituzione di ciò che Marx definiva “esercito di manodopera di riserva”. Se è vero che le liberalizzazioni possono avere un saldo netto positivo, allora, è innegabile che l’allocazione dei costi e benefici sia iniqua. Le élites che lodano le virtù del multiculturalismo hanno modo di conoscere solo gli aspetti positivi delle migrazioni: cibo etnico ai Navigli e badanti straniere. Saranno i poveri delle nostre periferie a pagare i costi della convivenza e dalla competizione al ribasso, dato che le élites formate in Bocconi o Luiss hanno solo benefici da trarre dalla competizione globale. Per non parlare dei costi che toccano ai Paesi di provenienza, lasciati al sottosviluppo totale. Fa bene Tito Boeri, allora, a ricordare che i migranti servono e ci portano soldi. Ma la ricchezza che portano qui, è ricchezza che avrebbero potuto creare altrove e che mai si creerà.
Mentre la destra reazionaria punta a difendere un capitalismo relazionale e anti concorrenziale ed è, dunque, coerentemente anti migranti, perché esprime un patto fra le élites economiche antiliberali e i ceti più umili – il patto trumpiano fra il mercantilismo e la “rust belt” (le ex aree industriali) che lo ha votato -, la sinistra moderata ha deciso di difendere le virtù delle liberalizzazioni. Ma se la sua funzione storica è trovare una quadra fra libertà e solidarietà , crescita e ridistribuzione, la sinistra non può non porsi il tema dei costi delle liberalizzazioni che, riguardo ai migranti, pagano i colletti blu nazionali, ma anche i Paesi di provenienza, colpiti da saldi migratori insostenibili. Governare le liberalizzazioni rischia di essere più insidioso di testimoniare le virtù del cosmopolitismo. Su questo punto, i riformisti, accusati di essere ora mondialisti, ora fautori della “fortezza Europa”, si giocano la partita elettorale decisiva.