A chi non è esperto sembrano tutti uguali. Lunghe vesti bianche con veli in testa più o meno colorati. E invece l’abito nei Paesi del Golfo, se non fa il monaco almeno spiega tantissime cose. Il grado sociale, la provenienza, la nazionalità, lo stile. E visto che l’insieme è più o meno lo stesso, tutto dipende dai dettagli.
Si comincia dal nome. Il vestito, lungo fino alle caviglie con maniche fino al polso, viene chiamato “kandura”. Si noti: è il termine utilizzato solo negli Emirati Arabi Uniti. Negli altri Paesi preferiscono usare “dishdash” o “thawb” (ma è sempre la stessa cosa).
Per il resto, i dettagli che contano sono altri. In Kuwait va di moda il colletto (con un bottone solo), mentre la veste deve cadere un filo sciancrata e aderente. In Oman, invece, il colletto non c’è, ma al suo posto applicano dei nappi attaccati all’altezza del petto. I “kandura” o “dishdash” del Bahrain sono ampi, con un colletto di camicia e le taschine, mentre i più ricercati sono i sauditi: colletto con due bottoni, maniche da camicia con tanto di spazio per mettere i gemelli. Gli Emirati invece hanno una lunga apertura davanti e dei ricami sulle maniche.
Come si vede in questa infografica di Brownbook illustrata da Liz-Ramos Prado, cambiano anche i copricapi. In Oman va molto il mussar, un cappello ricamato sui lati con tanto di dettagli personalizzati. Negli altri Paesi, invece, si usa il ghotra. Esistono almeno dieci modi per indossarlo (e non sono collegati alla provenienza geografica), che variano a seconda di come si posizionano le estremità del velo. Può essere alla “insegnante”, con entrambe le estremità sulla schiena, o alla “cobra” (in cui serve però molto amido), che riproduce il volto del serpente sulla testa. Il più difficile è il Bint-al Bakkar, un incrocio di veli ed estremità che, una volta appreso, regala molte soddisfazioni.