Il populismo ha vinto, e bisognerà (finalmente) dargli un altro nome

Etichettare il nemico come populista è stato controproducente. Renzi che dice di aiutare gli immigrati a casa loro non è un caso isolato in Europa. Molti leader di partiti tradizionali hanno adottato toni nazionalisti per non soccombere davanti a un malessere sottovalutato

Non chiamiamoli più populisti. E’ stato facile indicarli così per due, tre, quattro anni. Da quando la crisi greca ha messo a nudo i limiti delle politiche del rigore, l’Europa ha cresciuto al suo interno i suoi stessi nemici. Da destra, soprattutto. Ma anche da sinistra. Partiti e movimenti come quello di Marine Le Pen in Francia hanno catalizzato le speranze degli esclusi ma anche le paure di chi ce l’ha fatta e il potere lo ha in mano. Non solo in Europa è accaduto. Basti pensare all’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, nemmeno un anno fa. Populisti, xenofobi, estremisti. Ma soprattutto populisti. È stato questo lo stigma con cui le forze politiche emergenti sono state indicate all’opinione pubblica. I cattivi, i banalizzatori che usano la paura del cambiamento per moltiplicare i voti. Questa definizione di populista ha però sempre avuto tanti limiti, come quello di semplificare un malessere sociale invece profondo e inascoltato. Oggi questo limite emerge potentissimo per una ragione chiara: tutti sono diventati a loro modo populisti. Dai politici tradizionali a caccia di consenso ai media a caccia di attenzione. E se tutti sono populisti, nessuno è populista.

Nella discussione pubblica il populista è chi cerca un rapporto diretto con il popolo per combattere le élite, l’establishment al potere. Più in generale caratterizza una leadership che non vuole intermediari, che offre soluzioni semplici e immediate a problemi complessi e delicati. Come quello del lavoro. O come quello dell’immigrazione, vero terreno di scontro di quest’epoca. C’è chi ha vinto elettoralmente la sfida. Trump, appunto. O personaggi come l’inglese Nigel Farage, fra i sostenitori più accesi della Brexit al referendum dello scorso anno. Persino il greco Alexis Tsipras, che ha conquistato il governo in Grecia con un partito di sinistra radicale che chiedeva un cambio di rotta alle politiche di austerity dell’Unione Europea, può essere collocato in questo spazio in maniera speculare alle nuove destre. Molti hanno elettoralmente perso, dalla Le Pen all’olandese Geert Wilders che chiede di mettere al bando l’Islam, e incautamente i giornali di mezza Europa hanno titolato che l’ondata era stata fermata. In Italia, oltre un terzo dell’elettorato è attualmente collocabile sotto l’etichetta del populismo, tanto che diversi osservatori hanno già immaginato un governo fra Lega e 5 Stelle dopo le prossime Politiche.

Nella discussione pubblica il populista è chi cerca un rapporto diretto con il popolo per combattere le élite, l’establishment al potere. Più in generale caratterizza una leadership che offre soluzioni semplici e immediate a problemi complessi e delicati. Come quello dell’immigrazione, vero terreno di scontro di quest’epoca

Le etichette non possono bastare più. Che abbiano vinto o meno in cabina elettorale, è ormai evidente che gli strumenti e i temi dei cosiddetti populisti hanno contagiato anche chi populista non era e non vuole essere definito. Per una ragione molto basilare: non perdere troppi voti. O non perdere l’attenzione, nel caso dei media, che si sono messi a rincorrere il popolo degli indignati per un clic in più.

In Gran Bretagna, Theresa May era contraria alla Brexit, ma ha dovuto diventare sostenitrice di una hard Brexit non solo perché chiamata a guidare il governo ma anche per calcolo elettorale, perché così ha fatto sparire dalla scena gli indipendentisti di Farage. La May ha anche incautamente cercato le elezioni anticipate per chiedere un voto (al popolo) su di se’. In Francia, Emmanuel Macron avrà anche battuto la Le Pen, ma una volta diventato presidente ha iniziato a perseguire una linea rigorosa sul tema dell’immigrazione, nei confronti dell’Italia soprattutto. Senza dimenticarci che Macron ha vinto con un non-partito personale, presentato come rivincita sui partiti tradizionali. In Olanda, Wilders è stato messo ai margini, ma il liberale Mark Rutte lo ha battuto con una campagna all’insegna dei valori tradizionali, e poi non è riuscito a formare un governo subito dopo le elezioni perché non si trova un equilibrio di coalizione sul tema dell’immigrazione. Lo stesso sta accadendo in Austria, dove i cristiano-democratici stanno cercando di evitare una vittoria della destra nazionalista usando a loro volta il tema dell’interesse nazionale, di cui è alfiere il giovane leader Sebastian Kurz, a sua volta tentato dall’operazione catartica di una lista personale alla Macron. In questo contesto, si spiega anche la giravolta di Matteo Renzi, che dopo la sconfitta alle Comunali ha detto quello che l’elettore medio (non di sinistra, di centro o di destra) vuole sentirsi dire: aiutiamo gli immigrati a casa loro. Il segretario del Pd che parla come il segretario della Lega.

Tutti populisti? Quel che è certo è che bisognerà finalmente scendere alla radice del malessere. Che non è solo populismo. È anche il riemergere di pulsioni nazionaliste. E’ il ritorno di proposte politiche identitarie, tradizionaliste. E’ la mancanza di fiducia nei confronti delle istituzioni e di chi le rappresenta. E’ il desiderio, da parte di un elettorato trasversale che si sente escluso dalle scelte per il suo futuro, di recuperare un ruolo sociale mortificato dalla globalizzazione, dalla tecnologia, dalla noia di un dibattito politico autoreferenziale. Mettere tutto questo sotto l’etichetta del populismo non è stato un grand’affare.

@ilbrontolo

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