“Turisti andate a casa”. “Turisti state distruggendo la città”. “Il turismo uccide la città”. A Barcellona scritte come queste sono diventate una realtà diffusa. Ce ne sono di più brusche e di più gentili e sono sintomo di un disagio forte. Per mesi la città ha visto manifestazioni e una vera campagna di denunce contro chi affitta le case senza licenza (tipicamente su Airbnb) promossa dalla sindaca Ada Colau, storica militante per il diritto alla casa. Questa insofferenza al turismo di massa, ribattezzata “turismofobia”, sembrava un caso specifico della città catalana, figlio della gentrificazione avvenuta dopo la bolla immobiliare in quartieri storicamente popolari (Linkiesta lo ha raccontato nelle scorse settimane). Ma di settimana in settimana la protesta si è estesa anche in Italia. A Venezia duemila persone hanno manifestato nei giorni scorsi contro lo spopolamento della città, la monocultura turistica e l’annoso problema delle grandi navi, che minacciano le fondamenta in legno delle case. I segnali di nervosismo contro gli effetti collaterali del turismo mordi e fuggi sono giunti però da mezza Italia. A Firenze l’assessora Anna Paola Concia si è messa in testa alle città d’arte che vogliono regolamentare gli accessi e spostare i flussi verso le zone periferiche. A Roma la sindaca Raggi ha promesso, in chiave anti-degrado, limiti ai minimarket e fruttivendoli aperti 24 ore e incentivi per negozi artigiani e librerie. Il numero chiuso è stato richiesto, o minacciato, perfino in città balneari, da Capri alle Cinque Terre, da Laigueglia ad Alassio, dove il sindaco si è detto per giorni intenzionato a mettere un contapersone per l’accesso alla risicata spiaggia libera, assediata a suo dire da escursionisti rumorosi, prevalentemente sudamericani. Venerdì 7 luglio, per la cronaca, dopo un vertice con la Prefettura di Savona, il “numero chiuso” si è trasformato in più modeste ordinanze che vieteranno ai turisti di portare oggetti ingombranti, borse frigo, tende e gazebo.
Una dichiarazione netta negli ultimi giorni è arrivata anche da una persona insospettabile. «Alcuni luoghi non ce la fanno più a sopportare l’attuale numero di turisti. Eppure a sole poche centinaia di metri, a Venezia come a Roma, ci sono altri luoghi quasi ignorati ma altrettanto ricchi». A dirlo è l’uomo che il turismo in Italia lo deve promuovere per definizione, il titolare del ministero dei Beni e Attività Culturali e Turismo, Dario Franceschini. Uno che ha firmato una riforma dei musei che mette al centro la valorizzazione dei beni culturali, e che quindi non si può tacciare di conservatorismo. Dunque, che sta succedendo? Il turismo non era il petrolio d’Italia e uno dei mezzi per far crescere il Pil, dato che le spese di chi viene dall’estero sono equiparabili alle esportazioni? Se si dovesse dare una risposta secca, sarebbe che l’Italia, alla buonora tornata a crescere e a risalire nelle classifiche internazionali dell’“incoming”, scopre alcune debolezze mai risolte. Una su tutte: la mancanza di pianificazione e di una strategia sul turismo. È questa la luna che dovremmo guardare, più che il dito delle polemiche sui ticket o tornelli di ingresso nei luoghi più frequentati. La buona notizia, peraltro, c’è: un piano strategico per il turismo l’Italia da qualche mese se l’è dato. Ora si tratta di farlo uscire dalla carta e renderlo concreto.
«Alcuni luoghi non ce la fanno più a sopportare l’attuale numero di turisti. Eppure a sole poche centinaia di metri, a Venezia come a Roma, ci sono altri luoghi quasi ignorati ma altrettanto ricchi»
Contro degrado e spopolamento
Proteste come quella di Venezia dei giorni scorsi sono legittime o rischiano di mandare un messaggio sbagliato al mondo, di cui la città si potrebbe pentire? Se lo si chiede a Alessia Mariotti, professoressa associata di Geografia politico-economica all’Università di Bologna e direttrice del Centro di Studi Avanzati sul Turismo (CAST) del Campus di Rimini, la risposta è netta. «Sono più che legittime, l’unica scelta di cui una città si può pentire è di non aver fatto scelte», risponde. La questione, aggiunge, non è relativa solo all’ambito turistico ma a quello della democrazia partecipativa. «La città è uno spazio comune, principalmente dei suoi cittadini – commenta -. Chi viene da fuori è un utilizzatore di servizi pagati dai cittadini. I quali, come i pendolari, possono avere dei problemi a causa del turismo». La riflessione andrebbe distinta tra i turisti che pernottano e i famosi escursionisti, di cui i crocieristi sono stati da tempo indicati come la manifestazione più evidente, almeno a Venezia. «È il turismo mordi e fuggi quello che ha l’impatto più pesante sul tessuto cittadino», aggiunge Caterina Borelli, dottoressa di ricerca in antropologia all’Università di Barcellona. «Fa collassare il trasporto pubblico, intasa le zone centrali della città e le direttrici per raggiungerle, mentre i turisti consumano cibi da asporto che generano quantità sproporzionate di rifiuti e acquistano paccottiglia. Il danno all’immagine della città, per non parlare della qualità di vita dei suoi abitanti, è evidente».
Quando si ragiona dello stress delle città, tuttavia non bisogna concentrarsi solo sul degrado. «Il problema vero dei veneziani non è la vivibilità – commenta Caterina Borelli -. Le questioni primarie restano l’accesso alla casa e il lavoro. Venezia ha un mercato del lavoro orientato oramai in un unico senso: il settore turistico e il mondo dei servizi ad esso legati, con tutte le sue precarietà. Chiunque si occupi di altre cose ha serie difficoltà a restare in città. Se non hai una casa o un lavoro, i cestini stracolmi e i battelli intasati passano in secondo piano». È il tema della monocultura, che si lega allo spopolamento. Due questioni su cui lo stesso Unesco ha due anni fa chiesto alla città di cambiare marcia, pena la possibile e clamorosa uscita dalla lista dei siti patrimonio mondiale dell’umanità nel 2019 (lo ha ricordato nei giorni scorsi La Stampa).
“Numero chiuso” è diventata la parola d’ordine dell’estate. Ma ad Alassio e Laigueglia le minacciate chiusure delle spiagge libere si sono ridimensionate in più modeste ordinanze contro borse frigo, tende e gazebo
Ticket, tornelli o libertà di accesso ai beni comuni
Le problematiche legate al turismo vanno quindi affrontate su due piani. Quello della medicina che cura il sintomo e quello della cura che risolve il male alla radice. Il dibattito sui ticket e tornelli appartiene al primo capitolo. Lo ha detto chiaramente lo stesso Franceschini che, riporta Il Sole 24 Ore, ha bocciato l’ipotesi di far pagare un ticket ma ha proposto di introdurre «contatori di accesso, che bloccano gli ingressi fino a quando non è garantito il deflusso delle persone». Stessa linea promossa dalla sottosegretaria Dorina Bianchi. Invita a vedere la questione pragmaticamente Magda Antonioli, professore associato di Economia e Coordinatore del Met (Master in Economia del Turismo) presso l’Università Bocconi. «Il ticket è uno strumento di mercato semplice per regolare gli accessi, se sono troppi. Ma rischia di diventare impopolare e quindi andrebbe usato all’interno di logica più ampia. Ci possono per esempio essere prezzi ridotti per chi ha l’albergo in centro rispetto a chi arriva dalla Laguna». Ancora più importante, in città come Venezia, sarebbe però prendere iniziative di coordinamento per evitare che tutti i percorsi e cammini turistici guidati si facciano negli stessi posti e alle stesse ore. «Ancora oggi tre quarti di Venezia è vuota, anche nei giorni più pieni», spiega.
L’ipotesi di porre limiti di accesso viene invece bocciata Mariotti e Borelli. «È un elemento controverso, posso darle la mia opinione più che parlare di ricerche: sono per la libertà di circolazione – spiega Mariotti -. Penso che porre dei ticket o tornelli limiti l’accesso a un bene comune. Questo vale soprattutto per una città Patrimonio dell’Umanità come Venezia». «I tornelli sono uno sproposito – le fa eco Borelli -: a livello logistico creerebbero dei disagi insostenibili, e non oso pensare a cosa potrebbe succedere in caso di emergenza. E per principio sono contraria a far pagare un pedaggio per accedere a degli spazi pubblici che per definizione devono essere aperti a tutti. Qui non si tratta di batter cassa, ma di regolare i flussi, quindi forse si potrebbe ragionare sul sistema di prenotazione. Quello da cui si potrebbe iniziare è limitare le grandi comitive organizzate. I contapersone da soli invece non servono assolutamente a nulla: sono uno specchietto per le allodole, per far vedere che “stiamo prendendo provvedimenti”. I dati ci sono già, quello che tocca fare ora è agire». Ancora più dura è la posizione contro chi propone limiti per l’accesso alle spiagge. «È assurdo chiudere l’accesso alle spiagge libere, dove pure spesso ci vanno i residenti – commenta Mariotti -. Il tema dell’uso del litorale andrebbe studiato a fondo. L’Italia è il primo Paese in Europa per stabilimenti balneari e manca, generalmente, la cultura della spiaggia come bene comune che è invece diffusa tra i cittadini di altri Paesi europei, fra tutti in testa la Francia».
«Penso che porre dei ticket o tornelli limiti l’accesso a un bene comune. Questo vale soprattutto per una città Patrimonio dell’Umanità come Venezia»
Finalmente strategia
Entro luglio il Mibact firmerà un protocollo di intesa con cinque città d’arte (Firenze, che è stata la prima a richiederlo, Roma, Milano, Napoli, Venezia) per gestire l’“emergenza affollamento”. Ma al ministero va dato atto di aver messo in piedi un Piano strategico per il turismo che in Italia non c’è mai stato. È stato preparato in un anno di lavori e sono stati coinvolti enti locali, associazioni di categoria e sindacati e ha avuto il via libera della Conferenza Stato-Regioni e poi dal Consiglio dei Ministri. Tra i suoi punti cardine c’è il sostegno allo sviluppo turistico di destinazioni emergenti, come le città d’arte e i Borghi e il sostegno alla strategia nazionale per i parchi e le aree protette, aree rurali e aree interne. In altre parole, se la concentrazione è un dato di fatto, che deriva anche da una mancata pianificazione, il piano dovrebbe superarla attraverso percorsi turistici alternativi, costruiti attorno ad “assi di senso” (enogastronomia, agricoltura, cultura, etc.). È poi prevista l’incentivazione di nuovi “tematismi”, come il cicloturismo, il turismo all’aria aperta, gli itinerari enogastronomici, i cammini storici, gli itinerari culturali, musicali e letterari, i sentieri, rete del patrimonio demaniale dismesso eccetera. Il piano, ridotto all’osso, si basa su tre parole chiave: sostenibilità, innovazione e accessibilità/permeabilità fisica e culturale.
Secondo Magda Antonioli, Bocconi, che è stata consulente per la stesura del Piano, la svolta è vera perché «l’Italia non ha mai avuto una politica turistica di alcun tipo. Non abbiamo mai fatto una politica per la stagionalità. Addirittura abbiamo organizzato degli eventi, come il concerto dei Pink Floyd a Venezia, in alta stagione. Lo stesso discorso delle grandi navi a Venezia è stato gestito in modo sommario. Era arrivato il momento di fare qualcosa». Un approccio “statalista”, spiega, serve perché le promozioni internazionali vanno fatte a livello nazionale. Tuttavia il turismo è un fenomeno da gestire a livello locale. C’è quindi sempre un doppio livello da seguire, nazionale e locale.
«Il modello di sviluppo turistico va decisamente ripensato e bisogna cominciare dalla pianificazione strategica», commenta Mariotti. «Per questo il piano nazionale strategico va nella direzione giusta. Sono condivisibili le parole chiave e il fatto che, come accade negli altri grandi Paesi turistici internazionali, ci siano delle linee guida. Ora ogni regione si muove per conto proprio. E se la regione ha la dimensione ottimale per la gestione del turismo, è impensabile che non ci sia un coordinamento neanche per i criteri con cui assegnare le stelle alle strutture ricettive. È proprio nella necessità di discutere con 20 regioni che si vede la maggiore difficoltà dell’implementazione del piano».
C’è un ultimo aspetto su cui la docente invita a non illudersi: cioè che sia semplice portare i turisti arrivati nelle città d’arte, considerabili alla stregua di porte d’ingresso, verso i borghi e le altre aree interne. «Sono due mercati diversi. Vedo piuttosto una strategia di promozione delle aree meno frequentate. Significa aprire un nuovo mercato, non abbassare i flussi su quello già consolidato». Così come illusorio potrebbe essere promuovere borghi o aree interne, ma anche periferie di città d’arte, che non avessero sviluppato un’offerta turistica. «Vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso è tipicamente italiano. Si può fare promozione e comunicazione dopo che ho costruito un prodotto turistico. Altrimenti non ottengo alcun risultato. Serve quindi fare un lavoro di industrializzazione del settore turistico, cominciare a trattare il turismo per quello che è, cioè un’industria e convincere gli operatori turistici a coordinarsi con le altre parti della filiera turistica».
«L’Italia non ha mai avuto una politica turistica di alcun tipo. Non abbiamo mai fatto una politica per la stagionalità. Addirittura abbiamo organizzato degli eventi, come il concerto dei Pink Floyd a Venezia, in alta stagione. Lo stesso discorso delle grandi navi a Venezia è stato gestito in modo sommario. Era arrivato il momento di fare qualcosa»
https://www.youtube.com/embed/hvimiVmoMLI/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT