«Je Suis Macron» addio. Toccherà cambiare vestito e modello politico, e magari infilarsi negli improbabili tailleur arancioni o blu elettrico di Angela Merkel giacché è da lei, dalla signora Merkel, dalla Cancelliera Merkel – anzi, dall’odiata Cancelliera Merkel – che arrivano le parole più incoraggianti e attese sull’emergenza migranti. «Tutti in Europa devono accettare – ha detto in un’intervista alla Welt am Sonntag – che il vecchio sistema-Dublino non è sostenibile. Non può essere che Grecia e Italia debbano sopportare da sole tutto il carico, soltanto a causa del fatto che la loro posizione geografica è tale che i profughi arrivano da loro». È una picconata fatale al regolamento che impone ai Paesi di prima accoglienza di farsi carico dei richiedenti asilo, strenuamente difeso da gran parte del Vecchio Continente (che lo trova ovviamente assai comodo). E poiché la Merkel non parla mai a vanvera, è anche il segnale che un cambiamento ci sarà, probabilmente subito dopo le elezioni tedesche di settembre, quando Angela (nei sondaggi 10 punti sopra il suo avversario) avrà avuto la scontata convalida del voto popolare.
«Tutti in Europa devono accettare…»: le parole della Cancelliera sono anche una sconfessione del protagonismo francese sulla questione immigrati/profughi. È il giovane Emmanuel Macron, infatti, il capofila della resistenza al cambiamento delle regole vigenti: la difesa di Dublino è stata uno dei punti fermi della sua campagna elettorale, e poi il perno della sua strategia di governo. Ancora un mese fa la sua fedelissima Nathalie Loiseau, ministro degli Affari Europei, a una domanda precisa sulla possibilità di introdurre nuove regole rispondeva in modo drastico. «Vogliamo mantenere e rafforzare e migliorare l’attuale sistema». La linea di Macron è molto precisa. Conservare Dublino e magari rendere più flessibile Schengen, cioè l’accordo sulla libera circolazione delle persone, per dar modo a Parigi di isolarsi nelle sue frontiere invocando le esigenze di sicurezza nazionale in particolare nei confronti dell’Italia, “accusata” di controlli-colabrodo e di inadempienze nel rimpatrio dei clandestini.
L’accelerazione della Merkel sulla revisione del regolamento sui richiedenti asilo non è che la conferma dell’eccezionalità della sua leadership, che mai come adesso appare fuori dall’ordinario canone della politica europea
L’accelerazione della Merkel sulla revisione del regolamento sui richiedenti asilo non è che la conferma dell’eccezionalità della sua leadership, che mai come adesso appare fuori dall’ordinario canone della politica europea. Nessun premier in carica, in piena campagna elettorale per la riconferma, avrebbe mai osato sfiorare un tema così pericoloso e inviso all’opinione pubblica del suo Paese, giacché è evidente che ogni responsabilità spostata dalle nazioni rivierasche, dall’Italia e dalla Grecia, andrà redistribuita sugli altri, Germania compresa. Nessuno lo avrebbe fatto in termini così assertivi – «Tutti in Europa devono accettare…» – alla vigilia di un vertice quadrangolare sull’immigrazione (Berlino, Roma, Parigi, Madrid) ospitato dalla Francia, cioè il Paese più ostile a ogni modifica del sistema vigente. E di sicuro nessuno si sarebbe giocato la faccia su una promessa che appare così improba, così colossale, cioè quella di rimettere in discussione un’intesa che conviene a tutti tranne a una nazione in ginocchio (la Grecia) e a un Paese (l’Italia) che ha perso molto del suo peso specifico arrotolandosi in una crisi politica ed economica gravosissime.
In quel «Tutti in Europa devono accettare» c’è però anche un animus extra-politico, l’orgoglio di una figura che ha macinato alla guida della Germania tre generazioni di premier e presidenti europei: c’era lei all’epoca di Chirac, c’era lei con Sarkozy, con Hollande, e in Italia con Prodi, Berlusconi, Monti, Renzi, e in Spagna con due governi Zapatero e due di Rajoy, e ci sarà lei quasi sicuramente nei prossimi cinque anni mentre gli altri chissà cosa faranno, chissà chi incoroneranno. Insomma: di “astri nascenti” ne ha visti sorgere e tramontare abbastanza per non lasciarsene impressionare, e per ostentare la sua primogenitura con quel «tutti», con quel «devono». Anche a spese dell’enfant prodige d’Europa, il nuovissimo Macron (per nostra fortuna, una volta tanto).