Dopo il lancio dell’ennesimo missile nord coreano, che stavolta ha sorvolato il Giappone prima di terminare la sua corsa nell’Oceano, la tensione già altissima nel Pacifico ha fatto registrare un nuovo picco. Gli Stati Uniti minacciano Pyongyang per bocca di Trump, secondo cui “tutte le opzioni sono sul tavolo”, e insieme ai propri alleati regionali (Giappone e Sud Corea in primis) hanno convocato una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Tuttavia, a dispetto del clamore mediatico, le possibilità di un attacco americano contro la Nord Corea restano relativamente scarse.
Uno strike mirato contro le installazioni nucleari nord coreane presenta innumerevoli controindicazioni. In primo luogo non è certo che sia possibile eliminare l’intero arsenale nucleare di Pyongyang senza causare danni enormi all’ambiente e alla popolazione civile. Inoltre basterebbe che un singolo ordigno non convenzionale sopravvivesse al primo attacco per mettere la Sud Corea in pericolo di subire una ritorsione atomica. Ma anche se l’attacco americano venisse condotto con precisione chirurgica, distruggendo tutte le armi atomiche di Kim Jong Un e senza causare una catastrofe nucleare, lo scenario sarebbe comunque da incubo.
Una Nord Corea invasa da sud coreani e americani significherebbe per Pechino avere le truppe “nemiche” a ridosso del proprio confine
La Nord Corea dispone infatti di una vasta artiglieria convenzionale già disposta lungo il confine con la Sud Corea che, teoricamente, è in grado di colpire l’area metropolitana di Seul, dove vivono decine di milioni di persone. Secondo gli esperti si tratta di armamenti non particolarmente evoluti e che, una volta aperto il fuoco, sarebbero facilmente individuabili e quindi eliminabili. Ma i danni della prima ondata ritorsiva da parte di Pyongyang potrebbero comunque essere enormi.
Per ridurre il rischio di un’ecatombe di civili sud coreani (e forse non solo), gli Stati Uniti dovrebbero attaccare l’intero arsenale convenzionale nord coreano. La macchina bellica americana è teoricamente in grado di sostenere uno sforzo di questo genere ma qui si aprono una serie di altri problemi, che vanno al di là della – a questo punto neutralizzata – capacità di Kim Jong Un di rispondere all’attacco.
In primo luogo la reazione della Cina. Pechino è oggi disponibile al dialogo con Washington sul dossier nord coreano, ma un eventuale attacco Usa su larga scala non concordato rischierebbe di portare le lancette del tempo indietro di 70 anni. La Cina sta cercando di limitare la proiezione di potenza degli Usa sul proprio territorio già da qualche anno, in particolare con la costruzione delle isole artificiali nel Mar Cinese. Una Nord Corea invasa da sud coreani e americani significherebbe per Pechino avere le truppe “nemiche” a ridosso del proprio confine. Uno scenario strategico da incubo per i militari cinesi, che potrebbero far scivolare la situazione in una direzione drammatica, senza bisogno oltretutto di arrivare a un improbabile confronto aperto con gli Usa. La stessa Russia non resterebbe poi probabilmente passiva.
Una decapitazione del regime di Kim Jong Un e un annichilimento delle sue capacità militari, senza che il territorio del suo Paese venga invaso e controllato da potenze straniere di modo da lasciarlo come Stato cuscinetto con la Cina, sarebbe ugualmente problematico
Una decapitazione del regime di Kim Jong Un e un annichilimento delle sue capacità militari, senza che il territorio del suo Paese venga invaso e controllato da potenze straniere di modo da lasciarlo come Stato cuscinetto con la Cina, sarebbe ugualmente problematico. I profughi potrebbero essere milioni e la Cina difficilmente se ne farebbe carico. L’economia, quasi inesistente, del Paese andrebbe ricostruita da zero. Non è chiaro da chi sarebbe riempito il vuoto di potere lasciato da un regime eventualmente abbattuto. Manca insomma al momento una exit strategy, cioè un piano per il “dopo” che consenta di stabilizzare l’area. Abbiamo già visto in Iraq, in Afghanistan e in Libia il caos che può seguire a un intervento deciso senza una seria progettazione del futuro del Paese attaccato. Aprire una ferita purulenta ai confini con la Cina, in prossimità della Russia, e nell’area che secondo storici ed analisti è destinata a diventare il fulcro degli interessi strategici delle superpotenze mondiali nei decenni a venire, creerebbe i presupposti per un ulteriore deterioramento della situazione.
Dunque, nonostante i toni accesi del Presidente americano da un lato e degli uomini del regime di Pyongyang dall’altro, l’esito più probabile del quadro attuale è quello di un perdurare dell’equilibrio instabile. Il “chicken-game” a cui stanno giocando i protagonisti – il gioco perverso in base al quale nessuno dei due è disposto a sterzare per evitare l’impatto, per evitare di fare la figura del codardo coi propri elettori/circoli di potere – ha come esito più probabile una strage, nucleare o meno, di proporzioni difficilmente immaginabili. La tesi più diffusa, nonché la speranza, è che ai toni alti non corrisponderà un superamento della linea rossa. Test missilistici come quello appena compiuto da Pyongyang ce ne sono già stati in passato. Ma la Nord Corea non ha mai osato colpire per davvero. Allo tesso modo gli Stati Uniti hanno già fatto esercitazioni congiunte con Seul a pochi chilometri dal confine, e minacciato più volte il regime. Ma finora non hanno mai sparato sul territorio nord coreano. Alla luce delle probabili conseguenze, è difficile che decidano di farlo ora che Kim Jong Un ha un piccolo, ma parrebbe funzionante, arsenale atomico.