Più sentimenti e meno frasi fatte: così la gente si rimetterà a leggere le tue email

Formule di rito, congratulazioni e cordoglio copincollati, e tutte le comunicazioni diventano vuote e inutili. Quando invece basterebbe un po’ di onestà e di empatia per ridare alla scrittura il senso che merita. Un consiglio: provateci

Jan Woitas / dpa / AFP

Sentimenti. Non solo quelli degli altri, ma anche i nostri. Scrivere sul lavoro segue le regole di semplicità, stringatezza e focus sul business. Questo non deve però cancellare che sempre di una relazione tra due o più esseri umani si tratta.

I sentimenti fanno parte di questa relazione. Ne sono anzi una componente prioritaria.

È dunque importante, per non dire indispensabile, che quando scrivi tu tenga conto dei sentimenti altrui e che dalle tue parole traspaia umanità. Quella cosa un po’ strana che accomuna tutti.

Facciamo degli esempi.

In primis le odiose formule di saluto di rito: banalizzano, disumanizzano e poco, per non dire nulla, aggiungono. “Un cordiale saluto, distinti saluti” o peggio “saluti”.
Per non parlare delle formule di finto accudimento, stile “Non esiti a contattarmi ove le necessitino ulteriori informazioni”. Mentre lo scrivi stai già facendo le corna sperando che non ti scoccino più! Non è forse così?!

Sono le forme predilette che mettiamo in campo con sconosciuti. Vuote, tristi e pesanti che erigono dei muri come solo le parole sanno fare, più ancora dei mattoni.
In verità è difficile che possano diventare canale di conoscenza o volontà di approfondirla.

E ancora, il momento estremo: i necrologi, che spesso racchiudono le forme più raggelanti, come “La famiglia Rossi partecipa al dolore per la perdita del caro Giovanni”. Copia incolla di morte, che perpetuano le relazioni funeree intessute in vita. E poi la paura, tutta molto italiana, di sbagliare i titoli. Si offende il laureato se lo chiami ragioniere, il geometra se lo chiami dottore. L’ingegnere, se ti scappa di chiamarlo dottore o architetto, te lo sei giocato per sempre

Altri scempi si compiono per formulare gli auguri per le più diverse occasioni: “Auguri cari a Lei e famiglia”, “I nostri più sentiti auguri a Lei e alla Sua signora”. Pugnalate allo stomaco che tolgono tempo, tanto che gli occhi sono oramai abituati a ignorarle. Ma, se tu sei il primo ad accorgerti della finzione, cosa ti fa pensare che gli altri non si accorgano delle tue?

E ancora, il momento estremo: i necrologi, che spesso racchiudono le forme più raggelanti, come “La famiglia Rossi partecipa al dolore per la perdita del caro Giovanni”. Copia incolla di morte, che perpetuano le relazioni funeree intessute in vita.

E poi la paura, tutta molto italiana, di sbagliare i titoli. Si offende il laureato se lo chiami ragioniere, il geometra se lo chiami dottore. L’ingegnere, se ti scappa di chiamarlo dottore o architetto, te lo sei giocato per sempre. Ma un bel Marco, Luca, Maria no?! Chiamarci per nome anche sul lavoro, pur dandosi tenacemente del Lei, non cambia nulla. È solo un gesto di attenzione, anche banale, di identificazione e riconoscimento reciproco.

Certo, per superare queste formule disumane ci vuole coraggio. E non è ironico. Ci vuole il coraggio di rompere uno schema, quello delle convenzioni erette per creare barriere all’entrata dei sentimenti. C’è il rischio di passare per originali, impiccioni e persino maleducati? Sempre meglio che automi. E magari se dall’altra parte troviamo qualche altro originale, impiccione e maleducato vuoi vedere che nascerà una relazione ricca di umanità e di scoperte?

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