È una ripresa strana quella che viviamo in Italia. Il solido +1,5% anno su anno certificato dall’Istat giunge in un momento in cui ancora la percezione popolare è quella di un Paese in crisi, ancora accartocciato nei suoi annosi problemi di precarietà, mancanza di occupazione per i giovani, sfiducia nelle elite, di ogni genere.
La percezione, si sa, spesso sbaglia e quasi per definizione è qualcosa di molto differente dalla realtà, basti pensare a quella relativa alla sicurezza e all’immigrazione. Tuttavia è spesso la spia di evidenze che si scoprono andando più a fondo e oltre le percentuali riguardanti la crescita generale del Pil o dell’occupazione. Vi è infatti un gap tra crescita occupazionale e degli stipendi, tra i settori in cui cresce il numero dei lavoratori e quelli in cui vi invece vi è un aumento dei salari.
Osserviamo per esempio quali sono i settori, nella categorizzazione che l’Istat utilizza, in cui l’attività, misurata in ore di lavoro, è cresciuta di più in questi anni. Si tratta di servizi, in primis l’istruzione, con un +29,3% rispetto al 2010, seguita dalla sanità e dall’assistenza sociale, +25,1 per cento.
Tutti i servizi, includendo dunque anche la consulenza alle imprese, le attività scientifiche, quelle sportive, artistiche, sono cresciuti, a livello di ore lavorate, del 9,7%, contro una stagnazione del settore industriale (escluse le costruzioni).
Le cose non cambiano molto se prendiamo come riferimento la fine del 2014, quando è effettivamente finita la recessione, invece che il 2010.
Qui sono le attività legate alla ristorazione e al turismo quelle che hanno vissuto la crescita maggiore, ma i servizi in generale, seppure con uno scarto minore, sono ancora davanti di alcuni punti all’industria, sia con o senza le costruzioni (tra l’altro in ripresa).
Quello che sta accadendo è tra le cause della percezione di una crisi ancora non finita. C’è un aumento di posti di lavoro in ambiti in cui gli stipendi sono bassi o molto bassi, in cui non vi è quasi alcuna dinamica a livello di miglioramento della produttività. Sono settori a basso valore aggiunto, come il turismo o la ristorazione, a maggior ragione se dominati da realtà piccole
A livello di occupazione vera e propria, ovvero di posizioni lavorative per settore, il divario tra industria e servizi è ancora maggiore, con un boom nelle attività delle agenzie interinali e le attività manifatturiere o minerarie o edilizie che ancora sono molto al di sotto dei livelli occupazionali del 2010.
Anche a livello di posti vacanti gli ultimi dati segnalano che, seppure rimanendo su valori bassissimi rispetto all’estero, la domanda di lavoro da parte delle imprese e del mercato si direziona verso gli stessi settori, verso quei servizi nell’ambito di istruzione, sanità, turismo, ristorazione, che sono gli stessi in cui più sono cresciute l’occupazione e le ore lavorate.
Nella manifattura sta avvenendo il contrario rispetto ai servizi. Laddove si produce per l’export un aumento della produttività, anche in settori maturi come l’automobile, porta a un aumento dei salari. Peccato che questo non sia abbastanza per generare anche una crescita dell’occupazione corrispondente
Ci sarebbero tutti gli ingredienti per pensare che proprio in questi ambiti si stia concentrando la ripresa anche a livello di redditi e salari, accompagnandosi a un cambiamento strutturale di un’economia sempre più rivolta ai servizi.
E invece no. Se prendiamo i livelli salariali di oggi rispetto al 2010, divisi in tipologie contrattuali, osserviamo chiaramente che le crescite maggiori sono proprio in settori manifatturieri e industriali, o nel magazzinaggio. Vi sono le attività minerarie, la lavorazione del legno o del vetro, le concerie, l’industria della plastica, del cuoio, la chimica, la meccanica, le fonderie, con un aumento della retribuzione oraria superiore al 10% e alla media del settore privato.
Volendo rimanere solo all’interno di questo, visto il blocco agli stipendi nel pubblico, gli stipendi nell’istruzione, nel turismo, nei più svariati servizi, quelli relativi alla comunicazione o ai trasporti, o al commercio, sono tutti sotto la media superati da quelli in settori molto poco “cool”, molto “old economy”, qualcuno potrebbe quasi dire superati, ma soprattutto che hanno dato meno lavoro, in cui si sono lavorate meno ore rispetto ai nuovi servizi.
Quello che sta accadendo dunque è tra le cause della percezione di una crisi ancora non finita, di una ripresa presente ancora solo sulla carta, ovvero un aumento, in alcuni casi anche consistente, di posti di lavoro proprio in ambiti in cui gli stipendi sono bassi o molto bassi, in cui a una crescita della produzione corrisponde un quasi identico aumento dell’occupazione perchè non vi è quasi alcuna dinamica a livello di miglioramento della produttività. Sono settori a basso valore aggiunto, come il turismo o la ristorazione, a maggior ragione se dominati, come è soprattutto in Italia più che altrove, da realtà piccole.
La conseguenza sono salari scarsi, precari, che rimangono tali negli anni perchè la competenza specifica e l’appetibilità del lavoratore non crescono molto nel tempo.
Al contrario nella manifattura sta avvenendo, in particolare laddove si produce per l’export, un aumento della produttività, anche in settori maturi come l’automobile, peccato che non sia abbastanza per generare anche una crescita dell’occupazione corrispondente, per quanto inferiore a quella del prodotto (come è ovvio con produttività in aumento).
E così ancora una volta il nostro destino sembra quello di una economia frammentata con sempre più lavoretti più che lavori.
Beninteso, è un passo avanti rispetto alla crisi, ma l’attesa verso una crescita anche occupazionale finalmente guidata da innovazione e produttività si fa sempre più pressante.