Seth Stephens-Davidowitz di mestiere fa il data scientist. E avrebbe voluto chiamare il suo ultimo saggio How Big Is My Penis? (Quanto è grande il mio pene?). Ma poi l’editore lo ha convinto che per un lettore sarebbe stato imbarazzante richiedere quel titolo ad alta voce in libreria, e che quindi avrebbe venduto poche copie. La scelta alla fine è ricaduta sul più pacato Everybody Lies. Sottotitolo: What the Internet Can Tell Us About Who We Really Are. Ovvero: cosa ci dice Internet su chi siamo davvero. E una delle domande più frequenti poste dagli uomini ai motori di ricerca è proprio: How Big Is My Penis?. Perché se è vero che su Instagram e Facebook diciamo e mostriamo solo quello che ci piace, la verità su chi siamo realmente si trova – dice Stephens-Davidowitz – solo nelle ricerche che si fanno in privato su Internet. E Google, ovviamente, le conosce tutte.
Everybody Lies raccoglie i frutti delle ricerche di Stephens-Davidowitz, ex data scientist di Google ed esperto di Big Data per il New York Times, sulle tracce che ogni giorno lasciamo qui e là online. Utilizzando il flusso di informazioni di Google Trends, Google Adwords, Wikipedia, Facebook e anche PornHub e Stormfront, l’analista ed economista dimostra come i Big Data forniscano uno sguardo del tutto nuovo sulla psiche umana.
Al buio delle nostre tastiere, confessiamo le passioni più strambe, quelle che non riveleremmo mai alle platee social che ci vedono sempre sorridenti e soddisfatti. Nelle viscere di Google, si trova la mappa dei nostri disturbi mentali, delle nostre preoccupazioni, insicurezze, preferenze sessuali, scelte religiose e politiche.
Una mole di informazioni che non esisteva solo 15-20 anni fa e che cresce di ora in ora. In un giorno produciamo in media 2,5 trilioni di byte di dati. E ogni byte è un’informazione. Attraverso l’analisi dei dati, si spiega così come sia stato possibile veder arrivare Donald Trump alla Casa Bianca, ma anche, ad esempio, quanto gli americani siano razzisti. In occasione del Martin Luther King Day, negli Usa le ricerche di barzellette razziste su Google aumentano del 30 per cento. Mentre Barack Obama veniva eletto alla Casa Bianca, un americano su cento digitava su Google “Obama kkk (che sta per Ku Klux Klan)” e “Obama negro”. E per capire da chi è composto l’elettorato di Trump, Stephens-Davidowitz fa notare che le aree che più lo hanno supportato sono anche quelle in cui si cerca di più su Google la parola “nigger”.
Da strumento per conoscere il mondo, Google è diventato uno strumento per conoscere l’umano. Nella barra bianca rettangolare non digitiamo solo parole di cui vogliamo sapere di più. Confessiamo passioni segrete e poniamo domande indiscrete: “Odio il mio capo”, “Sono ubriaco”, “Mio padre mi picchia”, “Quante volte dovrei fare sesso con mio marito?”, “Come si fa sesso orale?”.
Nelle viscere di Google, si trova la mappa dei nostri disturbi mentali, delle nostre preoccupazioni, insicurezze, preferenze sessuali, scelte religiose e politiche
A tutti possiamo mentire: agli amici, ai mariti, ai medici, persino a noi stessi, ma non a Google. Confidiamo al motore di ricerca quello che non diremmo a nessun altro. Così si scopre che ogni mese un certo numero di donne cerca su Internet “humping stuffed animals” (ovvero: “scopare con i peluche”). E che l’equivalente al femminile della preoccupazione maschile sulle dimensioni del pene è l’odore della vagina. Ad alcune donne piacciono solo gli uomini bassi e grassi con un pene piccolo, mentre gli uomini ricercano modi per fare del sesso orale da soli tanto quanto cercano “come procurare l’orgasmo a una donna”.
«I Big Data ci permettono di vedere che cosa le persone vogliono e fanno realmente, non cosa dicono di volere e di voler fare», scrive Stephens-Davidowitz. È questa la differenza tra i dati che si ricavano da un sondaggio e i dati di Google. Secondo i sondaggi, solo l’1% della popolazione nell’ultimo anno non ha fatto sesso. Ma su Google la ricerca “matrimonio senza sesso” è tre volte e mezzo più comune di “matrimonio infelice” e otto volte più frequente di “matrimonio senza amore”. Nell’era pre-digitale nascondevamo agli altri i nostri pensieri più imbarazzanti. Nell’era digitale, continuiamo a farlo, ma li riveliamo a Google e PornHub, che proteggono il nostro anonimato.
Secondo Stephens-Davidowitz, non a caso, le ricerche sulla fruizione della pornografia online sono «lo sviluppo più importante nella nostra capacità di comprendere la sessualità umana». Questi studi forniscono dati «per i quali Schopenauer, Nietzsche, Freud e Foucalt avrebbero sbavato». «Il prossimo Foucalt sarà un data scientist. Il prossimo Freud sarà un data scientist. Il prossimo Marx sarà un data scientist».
I Big Data ci permettono di vedere che cosa le persone vogliono e fanno realmente, non cosa dicono di volere e di voler fare. È questa la differenza tra i dati che si ricavano da un sondaggio e i dati di Google
E se la mappatura oscura e contorta delle disgrazie umane ricavabile dai Big Data sembra deprimente, c’è però qualcosa di positivo: analizzando i dati anonimi di milioni di persone, dice Stephens-Davidowitz, scopriamo che non siamo gli unici ad avere difficoltà nella vita, nel matrimonio, sul lavoro, in amore, nel sesso. Perché a scorrere la timeline di Facebook, a volte, sembra invece che tutti abbiano una vita migliore della nostra.
La differenza tra i social e le viscere di Google è abissale. Il video porno più popolare di sempre, “Great Body, Great Sex, Great Blowjob”, è stato visto più di 80 milioni di volte. Ma sui social è stato condiviso solo una dozzina di volte, e per lo più da pornostar. Nel mondo di Facebook, sembra che ogni giovane adulto trascorra il sabato sera prendendo parte a feste indimenticabili. Nel mondo reale siamo per lo più a casa da soli. Anzi, in compagnia di Netflix. Nel mondo di Instagram una ragazza posta 26 foto felici in vacanza con il fidanzato, nel mondo reale appena chiude Instagram cerca su Google “il mio ragazzo non fa sesso con me”. E forse, nello stesso momento, quello stesso ragazzo sta guardando proprio “Great Body, Great Sex, Great Blowjob”. E a condividerlo non ci pensa nemmeno.