Ha fatto scalpore, nella comunità finanziaria internazionale, il rinvio a giudizio lo scorso 20 giugno di quattro ex dirigenti della Barclays, tra cui l’ex Ceo John Varley. Nel processo, che inizierà nel gennaio 2019, l’ex capo della banca rischia teoricamente fino a 22 anni di carcere, oltre a una multa milionaria. L’accusa: aver fatto una triangolazione vietata per far riuscire i due maxi-aumenti di capitale del 2008, pari complessivamente a 11,8 miliardi di sterline ed evitare così il bail-out. Di questi 2,4 miliardi erano arrivati da due veicoli di investimento del Qatar. Quello di cui il Serious Fraud Office accusa gli ex vertici è che quei soldi erano stati precedentemente prestati dalla Barclays agli stessi qatarioti. Sarebbe quindi stato un gioco di prestigio, una formazione di capitale fittizia, per dirla con il nostro codice civile.
Già, perché questi reati non sono esclusiva dei giganti finanziari internazionali. Scheletri nell’armadio ne abbiamo anche da noi, anche nella provincia bancaria che, abbiamo imparato negli anni, è tutt’altro che un posto limpido quanto a condotte bancarie. Nelle nostre banche popolari è già venuta a galla chiaramente la pratica delle azioni baciate vendute alla clientela, che a volte era solo vittima, a volte era attratta dai vantaggi su entità delle somme e tassi concessi. Da Veneto Banca a Banca Popolare Vicenza, il meccanismo era sempre quello: i crediti venivano concessi alla clientela in cambio della sottoscrizione di azioni e a fronte di un impegno della banca, a volte vago, a ricomprarsele. È finita malissimo, con le banche che hanno dovuto dedurre dal patrimonio di vigilanza il patrimonio così raccolto (lo prevedeva d’altra parte Basilea III) e con i clienti che, una volta precipitato il valore del titolo, si sono ritrovati con un debito e un pugno di mosche. Per Veneto Banca l’offerta di transazione dello scorso anno è stata di un valore pari al 15% di quello originario, per Vicenza 9 euro a fronte di un valore massimo di 62 euro.
Tutto questo è balzato agli onori delle cronache. Meno noto è il fatto che le azioni baciate sono state costruite non solo attraverso la clientela retail, ma anche con acquisti incrociati fra banche sottocapitalizzate. Un incrocio di sistema che è stato ancora poco approfondito.
Un esempio su cui riflettere è quello di un’indagine in corso, condotta dalla Procura di Ferrara, su un aumento di capitale della Carife, una delle quattro banche “risolte” nel novembre 2015 (ora comprata da Bper). Nel 2011 la banca dovette fare un aumento di capitale di 150 milioni di euro. Di questi, 22,8 arrivarono da quattro banche popolari: la Popolare Valsabbina (per 10 milioni), la Cassa di Risparmio di Cesena (6 milioni), la Popolare di Bari (4,037 milioni), la Popolare di Cividale (2,058 milioni). Secondo l’accusa della procura, questi soldi sarebbero in seguito stati girati su una società legata alla Carife, chiamata Carife Sei, la quale avrebbe acquistato azioni degli stessi istituti che ne avevano finanziato l’aumento di capitale. Si sarebbe quindi trattato di un aumento “apparente” concertato tra banche amiche. Per Carife il vantaggio sarebbe stato quello di non far entrare nuovi veri azionisti, con il rischio di far perdere il controllo alla Fondazione Carife. I magistrati stanno cercando di capire, riporta un articolo del Sole 24 Ore del 15 luglio 2016, quali vantaggi abbiano avuto le altre banche. Le indagini sono in corso, le persone indagate sono giunte a una cinquantina, tra cui Marco Jacobini, presidente della Banca Popolare di Bari. Le ipotesi di reato sono di aggiotaggio, falso in prospetto, ostacolo alla vigilanza e bancarotta patrimoniale.
Nell’aumento di capitale del 2011 della Carife, su 150 milioni 22,8 arrivarono da quattro banche popolari. Secondo l’accusa della procura di Ferrara questi soldi sarebbero in seguito stati girati su una società legata alla Carife, chiamata Carife Sei, la quale avrebbe acquistato azioni degli stessi istituti che ne avevano finanziato l’aumento di capitale
Come interpretare queste manovre? Possono essere viste come singole azioni di banche spregiudicate, o anche come operazioni in cui c’è stata una concertazione di banche del territorio. Prima dello scoppio delle crisi delle banche di territorio (popolari, ma anche spa ex casse di risparmio) del 2015 c’è stata una fase di crescita aggressiva di questi istituti. Le loro strategie sono state per certi versi affini, fatte di alta crescita, di propensione al rischio per aumentare la quota di mercato, su territori non familiari. A un certo punto questi istituti si sono dati una mano, con vari strumenti, per esempio con quello dei fondi immobiliari, che negli anni precedenti avevano avuto uno sviluppo notevole, utilizzati per schermare i debiti verso property developer in difficoltà. La stessa Carife era molto attiva in questo settore con la Vegagest SGR, compartecipata da CR San Miniato, Popolare di Bari e Veneto Banca. Questa rete era in sé lecita, fatta di rapporti, di partnership, di operazioni tra banche che avevano strategie convergenti. La cronaca giudiziaria ci ha detto però che questo può essere decaduto in operazioni penalmente perseguibili. Un campanello d’allarme è il ricorso a fondi esteri, così come a fondi di investimento o a società non consolidate, che serve per schermare i movimenti, non rendere esplicito lo scambio di azioni che sarebbe altrimenti individuabile dalla vigilanza bancaria.
Le cronache hanno d’altra parte mostrato diversi casi in cui il patrimonio è stato gonfiato in modo anomalo. Ad esempio, l’operazione della Banca Popolare di Vicenza legata all’aumento di capitale del 2014. In quel caso parte dei milioni necessari sarebbe arrivata attraverso dei fondi lussemburghesi amministrati a Malta. Sarebbero gli stessi fondi, in particolare Optimum, in cui Popolare di Vicenza aveva investito 350 milioni di euro. Le perdite furono ingenti, circa 199 milioni di euro. Tali investimenti sono serviti per essere usati per acquistare titoli ad alto rischio. Spesso si è trattato di bond emessi da clienti già pesantemente esposti con la banca e a basso merito creditizio, come i gruppi di Alfio Marchini, la famiglia Fusillo e la famiglia Degennaro. La svalutazione di tali investimenti è uno degli aspetti principali dell’azione di responsabilità a carico degli ex vertici della Popolare di Vicenza. A parlare del ritorno degli investimenti sotto forma di acquisto di azioni fu per primo Vittorio Malagutti su L’Espresso. A seguito ci furono dei commenti di un avvocato della Veneto Banca, raccolti in un’intercettazione della Gdf, secondo cui la stessa operazione era stata proposta a Veneto Banca, che l’aveva rigettata.
L’istituto di Montebelluna, tuttavia, ha avuto vicende simili. Una di queste ha riguardato lo scambio di azioni e obbligazioni subordinate con Unionfidi Piemonte, uno dei maggiori confidi italiani che è stato messo in liquidazione nelle scorse settimane. Si legge nel bilancio 2016, l’ultimo redatto dall’istituto, che nel 2012 e 2014 Unionfidi ha emesso dei prestiti subordinati rispettivamente per 2 e 1,3 milioni (sottoscritti da Veneto Banca) e che questo sia potuto avvenire in cambio della sottoscrizione di azioni di Veneto Banca stessa. Azioni poi svalutate, quando il valore è crollato da 30 euro a 10 centesimi. Testualmente: «Nell’anno 2016 il Confidi ha avviato un contenzioso civile nei confronti della stessa Veneto Banca inerente i due contratti di finanziamento subordinato sottoscritti nel 2012 e nel 2014, in quanto entrambi accompagnati – su richiesta esplicita o indotta della Banca – dalla sottoscrizione delle anzidette azioni».
Veneto Banca è stata tirata in ballo in un caso sollevato nei giorni scorsi dal Fatto Quotidiano, relativo ai rapporti dell’istituto di Montebelluna con Banca Intermobiliare.
Prima dello scoppio delle crisi delle banche popolari del 2015, c’è stata una fase di crescita aggressiva di questi istituti. Le loro strategie sono state per certi versi affini. A un certo punto questi istituti si sono dati una mano, con vari strumenti
Il confine tra ciò che è lecito e quello che illecito non è sempre immediato. Dal punto di vista normativo, Basilea III vieta queste partecipazioni incrociate. Questo è anche il principio del codice civile italiano. La difficoltà è che però ci sono dei modi per aggirare questi divieti. C’è infatti una franchigia, pari al 10% del Cet1 della banca che acquisisce le azioni, che non viene dedotta dal suo capitale. Le regole di Basilea danno margini ancora più ampi per le posizioni “non significative”, inferiori al 10% del capitale della partecipata. È una norma che facilita le banche attive sul trading di azioni bancarie. Questa franchigia consente di acquisire posizioni significative nel capitale di un’altra banca, seppur non di maggioranza, senza andare a consumare il proprio capitale. È un meccanismo molto pericoloso: nel momento in cui la banca che lo ha sfruttato subisce le perdite, cala il suo Cet1, si riduce la franchigia e l’ammontare della partecipazione, che prima non era dedotta, viene dedotta. C’è l’effetto tipico delle azioni baciate, che è quello di un castello di carte che viene giù.
Sarebbe da capire se è stato sfruttando questi margini che Veneto Banca ha acquisito nel 2011 il 10% del Credito di Romagna, il quale ha poi acquisito azioni di Veneto Banca per un valore pari, come riportato in una interrogazione parlamentare a firma del senatore Di Biagio. Piccolo particolare: tutta l’operazione, secondo la ricostruzione della stessa interrogazione, sarebbe stata concordata con la Banca d’Italia come una delle condizioni per uscire dall’amministrazione straordinaria.