Il comunicato congiunto sulla tassazione dei giganti Internet firmato dai ministri delle finanze delle quattro principali economie europee (Le Maire, Padoan, De Guindos e Schaeuble) solleva un problema solo apparentemente tecnico.
In realtà al problema della tassazione dell’economia digitale è legata – immediatamente – la questione di quale possa essere il ruolo di Stati nazione e organizzazione internazionali pensati per governare società industriali, in un contesto nel quale evaporano persino le catene di montaggio e i confini tra settori industriali.
Questa questione interessa tutti. Diventa, però, di sopravvivenza per un’Europa che sta cercando un ruolo rispetto a fenomeni storici che spesso subisce. Per due semplici motivi.
Innanzitutto perché è vero che l’economia si sta digitalizzando – basta pensare all’ingresso sempre più attuale dei giganti di Internet nell’industria automobilistica – e mentre ci balocchiamo con i piani di Industria 4.0 rischiamo di ritrovarci come Europa (includendovi anche la potente industria teutonica) in una posizione marginale. In un mondo che ci è cambiato sotto i piedi e di fronte al quale ci potremmo svegliare un giorno senza più leve. Partendo da quelle fiscali che sono indispensabili per la sopravvivenza di una qualsiasi istituzione.
Il secondo motivo è che i protagonisti del nuovo mondo, quelli che stanno per dettare le regole a tutti gli altri perché controllano le piattaforme sulle quali transitano idee e servizi, sono tutti americani (e cinesi). Rispetto alle altre multinazionali USA del mondo non digitale, i giganti della rete tendono a fare più vendite e profitti fuori dagli Stati Uniti ma a pagare molto meno tasse sul totale in Europa.
Basta del resto vedere i numeri dei bilanci ufficiali: le prime cinque imprese digitali per capitalizzazione (Amazon, Google, Apple, Microsoft e Facebook) sono anche le cinque più grandi imprese del mondo per valore. Realizzano il 60% delle vendite e dei profitti fuori dagli Stati Uniti, lasciandovi solo il 10% delle tasse pagate. Exxon, Johnson & Johnson e General Electric – per dire di colossi americani che non sono però digitali – fanno metà del fatturato all’estero e all’estero pagano la metà delle tasse.
La distorsione è evidente e – nonostante l’abuso di veicoli fiscali utilizzati (non solo da imprese digitali) per abbattere le tasse – non è neppure necessariamente illegale. Per una ragione semplice.
Se continuo ad avere come principio fondamentale dei sistemi di tassazione, quello che io tasso il reddito prodotto nel mio territorio e allora le grandi imprese di Internet possono – a ragione – sostenere che il proprio prodotto sia sostanzialmente fabbricato nei laboratori dove si fa ricerca.
Mentre molto inferiore – rispetto ad un’azienda che vende beni pesanti – è il valore della logistica se non ho bisogno di navi e magazzini (a ciò fa parziale eccezione Apple e, soprattutto, Amazon che però, comunque, sta disintermediando tutte le altre catene di distribuzione).
Una tassa sul digitale ha, davvero, senso solo se prelevata, accertata direttamente dalla Commissione che può, persino, convincere i colossi di Internet a pagarla usando il potere che le fornisce la possibilità tecnica di limitare l’accesso al mercato più ricco del mondo.
Cosa può allora fare l’Europa? Un’Europa che spesso sembra avere – rispetto a grandi fenomeni storici – poche idee ma confuse? Intanto è utile porre il problema ed ammettere che nessuno Stato nazionale può risolvere la questione da solo: è questo il senso del comunicato congiunto firmato dai ministri delle finanze delle quattro principali economie europee (Le Maire, Padoan, de Guindos e Schaeuble) che verrà discusso venerdì prossimo al vertice ECOFIN a Tallin.
Utile è anche ammettere che la risoluzione del problema passa per un ripensamento del concetto di tassazione basata sull’utile (che è, comunque, quasi impossibile attribuire ad un luogo se alla sua produzione contribuiscono soggetti collegati da un computer) che verrebbe, progressivamente, sostituito da una fiscalità calcolata sul fatturato. E, tuttavia, siamo ancora all’inizio di un lungo processo.
In un’economia digitale, persino il luogo della vendita diventa meno definito. Un contenuto digitale o anche una pubblicità può essere venduta in un Paese ma l’accesso a quel contenuto può avvenire dovunque ed esso può essere replicato un numero infinite di volte. In realtà tassare ciò che attraversa i confini è possibile – per definizione – solo per un’istituzione che supera i confini nazionali. Per risolvere il problema devo riprogettare i sistemi fiscali e, probabilmente, anche la definizione di Stato che sul fisco trova una delle sue fondamenta.
Ed allora il paradosso è che uno dei maggiori grattacapi della Commissione – la Web Tax – può diventare l’occasione per risolvere il problema più grande che le istituzioni comunitarie hanno. Una tassa sul digitale ha, davvero, senso solo se prelevata, accertata direttamente dalla Commissione che può, persino, convincere i colossi di Internet a pagarla usando il potere che le fornisce la possibilità tecnica di limitare l’accesso al mercato più ricco del mondo.
E ciò risolverebbe la contraddizione di istituzioni il cui bilancio è interamente finanziato dagli Stati con tutti i conflitti di interesse che ciò genera. È una possibilità che ancora abbiamo, anche se il tempo per fare questo salto – organizzativo, politico e culturale – sta scadendo. Perché, presto, persino l’Unione sarà piccola rispetto a fenomeni così globali.
Se però così fosse l’Unione Europea al WEB dovrebbe dedicare risorse – intellettuali, manageriali più che finanziarie – importanti: quali le conseguenze per l’Europa e per il mondo, per l’economia e l’innovazione della straordinaria concentrazione di potere che le piattaforme digitali creano? Che tipo di regolamentazione posso immaginare di fenomeni che non leggo più con le tradizionali metriche dell’economia o dell’antitrust?
Va bene porsi il problema di correggere le distorsioni fiscali. Ciò però si fa non con piccoli aggiustamenti. Ma con una visione ed un pragmatismo che impone alle burocrazie, anche quelle più preparate, di cambiare la propria natura.