Che viviamo in un’epoca dominata dalla nostalgia non è più nemmeno un segreto di Pulcinella. Negli ultimi anni ci siamo ritrovati invasi da prodotti artistici derivativi. Remake, sequel, remix, riadattamenti, riscritture: nessun ambito dell’arte popolare occidentale sembra esserne esente, dal cinema alla letteratura, dalla musica al fumetto. Proviamo tutti l’esigenza di rivedere, rivivere, riattualizzare le grandi narrazioni della nostra giovinezza. IT, Stranger Things, Ghostbuster, Star Wars, Blade Runner e l’elenco, anche solo rimanendo del campo da gioco del cinema, potrebbe tranquillamente durare tutto l’articolo.
Che cosa sta succedendo? È un fenomeno nuovo? Ha proporzioni inedite? Appartiene solo alla nostra generazione, quella dei nati tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta? È il sintomo di uno stagnamento culturale? Di mancanza di stimoli? Di pigrizia intellettuale? O più semplicemente della paura di invecchiare o della debolezza di una generazione che si è goduta fin troppo la giovinezza e ora non riesce a distaccarsene?
Tutte domande che vorticano nella testa di una intera generazione che, per motivi contingenti ma evidenti si è ritrovata proprio malgrado non solo a pensarsi come unica, come tutte le generazioni della storia dell’Umanità, ma anche effettivamente ad esserlo: l’unica a sentirsi nativa sia del mondo analogico, nel quale è nata, sia del mondo digitale, nel quale è cresciuta.
«L’era pop in cui viviamo è impazzita per tutto ciò che è retrò e commemorativo», Simon Reynolds iniziava così, nel 2007, uno dei libri più interessanti sull’argomento, intitolato Retromania e dedicato agli effetti di questa specie di nostalgia soprattutto nel mondo musicale. Continua Reynolds: «Gruppi che si riformano, reunion tour, album tributo e cofanetti, festival-anniversari ed esecuzioni dal vivo di album classici: quanto a passione per la musica di ieri, ogni anno supera il precedente. E se il pericolo più serio per il futuro della nostra cultura musicale fosse… il passato?».
A questo proposito c’è un brano di Walter Benjamin, uno dei più geniali filosofi del Novecento, nato nel 1892 e morto nel 1940, che si intitola Angelus Novus e che riletto oggi, a più di 70 anni dalla sua stesura, ci dà un interessante spunto per interpretare questa invasione di prodotti artistici derivativi nelle nostre vite. È un brano molto sintetico, ci sta in poco più di una pagina e vi si legge di un angelo «che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese». Ma più ancora di tutto: «Ha il viso rivolto al passato». Secondo il filosofo tedesco, che scrisse queste righe pochi mesi prima di morire, era questo l’aspetto dell’Angelo della Storia.
Occhi spalancati, bocca aperta, sguardo verso il passato. Niente da dire, l’angelo di Benjamin ci sembra decisamente familiare: ci ricorda i tratti del nostro demone del Remake. Anche lui, come il nostro, «vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto», salvare dall’oblio quelle macerie che si è lasciato dietro, fermare il tempo e sottrarsi alla condanna della Storia, sfuggire all’oblio.
L’angelo della Storia di Benjamin non riesce nella sua missione. E non ci riesce perché «una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi’ forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo». Benjamin sa bene che cos’è questa tempesta, e la odia. È «Ciò che chiamiamo il progresso».
E forse è proprio questo il punto, quello che ci serve capire per fare interpretare questa tendenza al ripiegamento sul già visto, sul già sentito, sul già letto che, se per gli integrati ha un sapore confortevole, tranquillizzante e consolatorio, per gli apocalittici è invece un campanello di allarme, un sintomo inequivocabile di uno stagnamento culturale che precede probabilmente di poco la dichiarazione di morte della cultura occidentale.
Probabilmente è vero: se non usciamo da questo loop derivativo rischiamo di esaurirci o, volendo far correre un po’ la fantasia interpretativa, dopo essere scappati dal portone dell’arte medievale e dal suo principio di imitazione, rischiamo di rientrarci dalla finestra. La speranza è che tutto questo passerà, che la nostalgia, sentimento che a dispetto del suo nome greco è nato nell’Ottocento ed è diventato la cifra essenziale di tutto il Novecento, scomparirà insieme a noi, ultimi figli del secolo breve. Ma per accettarlo dobbiamo smettere di singhiozzare come Charles Foster Kane mentre ripensa alla sua slittina di nome Rosebud. E dobbiamo smetterla non tanto perché siamo ridicoli, ma perché Charles Foster Kane, mentre delirava il nome della sua slitta, era sul letto di morte. Non è un caso, d’altronde, che si dica che negli ultimi istanti di vita rivivremo tutto, in un grande nostalgico e terrificante remake.
Intendiamoci: la fine della cultura occidentale non è certo la fine della cultura tout court. Perché mentre noi coccoliamo le nostre nostalgie, tutte le altre culture del mondo sono invece in una fase di profonda espansione e vitalità. E non hanno nemmeno bisogno del mercato occidentale per legittimarsi. Il problema è che dalla nostra cameretta non si vedono. Ma, per l’appunto, è un problema nostro.