Così Zuckerberg vende i nostri dati ai politici (e influenza le elezioni)

Facebook ogni giorno analizza i suoi utenti e li categorizza in base alle loro preferenze politiche. I dati sono poi forniti ai competitor elettorali. Un modo di sfruttare le divisioni dei paesi a scopo politico

Dividere la società in quattordici gruppi distinti in base all’ideologia politica non è un compito eccessivamente improbo, soprattutto se si è in possesso di database che contano miliardi di persone. Dopo lo scandalo degli annunci politici che sarebbero stati pagati dalla Russia con l’obiettivo di interferire con le elezioni presidenziali americane, Facebook torna al centro del dibattito a causa di un articolo uscito su Buzzfeed il 30 ottobre, dove viene spiegato come durante le elezioni il social network abbia fornito agli inserzionisti un prospetto della società americana divisa per target. Uno spaccato che è un punto di partenza utile per sfruttare – esasperandole – le divisioni del Paese a scopo politico. Partendo da una banale divisione in cinque segmenti legati alle preferenze politiche che vanno dai “molto liberali” ai “molto conservatori”, facebook ha analizzato la società attraverso variabili quali età, interessi, avversioni, religione e razza. Quello che ne esce è il quadro di una società americana tra le più divise di sempre, fotografata mentre vive una stagione elettorale estremamente tesa.

Si parla dunque di divisione, o meglio delle divisioni che traspaiono dalle tracce che lasciamo ad ogni passo, ogni giorno, mentre coltiviamo le nostre relazioni sul web. Non è una novità che gli algoritmi di facebook lavorino etichettando i profili e guidandoli verso gruppi con un alto tasso di omofilia: navighiamo in comunità in stretta relazione, ma spesso senza cognizione di causa. La lente attraverso cui Mr. Zuckerberg ci presenta il mondo può essere più o meno simile a quella dei nostri coetanei. Le diottrie che ci separano si definiscono in base ai like delle pagine che seguiamo, ai commenti politicamente scorretti che rilasciamo e agli hashtag che utilizziamo. A livello politico questi dati, assieme ad altri dati provenienti da questionari e dalle analisi dei voti delle elezioni, sono una miniera d’oro che aziende come la Cambridge Analytica – millantata di aver portato Trump alla vittoria nelle ultime elezioni americane – possono utilizzare “per trovare gli elettori più inclini a essere persuasi a votare” per il candidato per cui l’azienda lavora. Come spiegava sul Sole 24 Ore un data scientist della Cambridge Analytica che ha lavorato durante la scorsa campagna elettorale americana, “il nostro compito principale era identificare potenziali elettori di Trump. A livello di Data science, ci occupavamo di analisi di dati in arrivo giorno dopo giorno. E questi venivano usati per aggiornare modelli predittivi”, e ancora: “mi occupavo di creare questi modelli per stimare la preferenza di certi gruppi di elettori per il candidato o per modellare la probabilità di presentarsi alle urne o la sensibilità verso particolari questioni di politica”. In un video di presentazione pubblicato nel settembre del 2015 la CA illustrava brillantemente il magico e scintillante mondo delle campagne politiche al tempo dei big data ben prima che Trump fosse intercettato dai radar dell’opinione pubblica internazionale. Quello che ne viene fuori è uno spaccato di politica asettica, dove l’elettore è preda di una comunicazione camaleontica che tende ad essere sempre più personalizzata e invadente.

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Distopie e determinismo tecnologico a parte, i politici non nascono in provetta, e un’ottima campagna elettorale, anche se altamente intrusiva come quelle anelate dalla CA, non potrà mai cambiare, con un artifizio di algoritmi e formule matematiche, il destino di una nazione. E né tantomeno le fake news di cui si sente parlare ormai ovunque, dalle aule del parlamento ai maggiori talk show di prime time, sostituiranno la realtà con un suo posticcio surrogato – a proposito è curioso rilevare come, nell’ambito delle fake news, gli elettori di Bernie Sanders, a differenza di altri, “non credono a nessun articolo che non contenga prove credibili”; una piccola conferma in più che il problema delle notizie false in realtà non riguarda tutta la società, ma, probabilmente, solo alcune fasce sensibili.

Il tema qui è un altro: la divisione. La società in cui viviamo è sempre più frammentata e chiusa in gruppi, e allo steso tempo l’esperienza online tende ad essere sempre meno inclusiva e più esclusiva. In questo caso, i dati che facebook ha propinato agli inserzionisti danno un’idea perfetta dello spirito del tempo: un prospetto che rappresenta tutta la popolazione, divisa all’interno di sacche ideali che ci racchiudono e ci definiscono, senza soluzione di continuità. Come si è lasciato scappare il ministro Orlando davanti ai microfoni di Report qualche settimana fa: “E’ il capitalismo, baby”, e tu, in questo mare di dati, ci puoi soltanto navigare a vista. Cercando di non annegare.