In una delle scene più memorabili di un film memorabile Michele Apicella si fa sbattere fuori da un bar dopo aver aggredito un cliente. Mentre lo trascinano fuori Apicella grida il suo sdegno al nemico nostalgico e qualunquista, reo di aver messo rossi e neri sullo stesso piano.
“Te lo meriti Alberto Sordi, te lo meriti!”
Quel film si chiamava Ecce Bombo e nelle intenzioni di Moretti, regista e protagonista nei panni di Apicella, non doveva far ridere. Anzi era “convinto di aver fatto un film doloroso, che raccontava una porzione di realtà molto circoscritta e poco rappresentativa della condizione giovanile italiana. Tutto mi aspettavo fuorché l’identificazione che poi c’è stata, anche da parte di persone lontanissime”. Eppure faceva ridere eccome e dissacrava alcuni dei luoghi comuni più spaventosi e abietti che già nel 1978 sostituivano silenzi dignitosi. Si stava meglio quando si stava peggio, il nostalgismo come chiave di lettura del presente. Che Moretti si sia poi sinceramente pentito di quell’affronto a uno dei mostri sacri del cinema e del varietà è cosa poco importante, quel che conta è che alla generazione dei cinquantenni fotografata in Ecce Bombo si rimproverava una lettura della contemporaneità filtrata dalla lente Alberto Sordi, quel modo rassicurante di esser tutti brava gente, al limite colta in un momento difficile.
Si stava meglio quando si stava meglio e prima ancora quando si stava peggio. Senza far ricorso a nozioni filosofiche che mi mancano, il nostalgismo così a occhio richiede un’esperienza diretta della sensazione, del contesto rimpianto. Si può certo nel 2017 essere nostalgici dei fasti medicei, ma ci vuole una bella fantasia. La vera sfortuna è che se le esperienze vissute non sono memorabili, tocca aggrapparsi a qualcosa di familiare e sposare la nostalgia più disponibile, anche una di quelle minori e sciape.
Gli anni Ottanta sono stati una follia e non è cosa aprire dibattiti in queste poche righe, accontentiamoci dell’assunto. La moltiplicazione dell’offerta televisiva portò a una corsa all’accaparramento senza regole né controllo, chi costruiva i palinsesti andava per accumulo e non storceva il naso neppure di fronte al materiale più pericoloso.
Tra la fine dei Settanta e i primi Novanta arrivarono in Italia decine di anime per adulti, cartoni animati derivati da quei fumetti (manga), che in Giappone hanno un seguito foltissimo e che alla stregua delle graphic novel affrontano temi diversi e lontani tra loro, temi adulti e delicati.
Da noi furono importati senza alcuna cautela, facendo valere la pericolosa equazione cartone animato = bambini. In alcuni casi, quello di Lady Oscar su tutti, i dialoghi furono forzati e tradotti senza alcuna coerenza con gli originali ma soprattutto in completa distonia rispetto alle scene animate. Una follia che tutti noi ragazzini e bimbi di quella generazione subimmo senza filtri, perché i genitori davano per scontato che a monte ci fosse un controlli di qualità.
Incubi post atomici (Ken Shiro), tragedie familiari, violenze ossessive, sugli schermi delle neonate televisioni commerciali, e per pietosa imitazione su quelli delle reti del servizio pubblico, passò la nostra diseducazione sentimentale ed emotiva.
Certo c’erano delle eccezioni, ma non serve la neuropsichiatria infantile per capire che le tematiche dei cartoni animati per bambini, i colori e le immagini utilizzate dovrebbero essere molto diverse e che anche nei casi apparentemente più innocui (pallavoliste in amore, calciatori adolescenti), bisogna sempre tenere in grande considerazione il pubblico di destinazione e nel caso si tratti di bambini valutare la possibilità di condizionarne l’immaginario.
Se l’acquisizione dei prodotti fu scellerata, altro discorso va fatto per le sigle e il grande lavoro dei discografici.
Le sigle di quei cartoni animati sono un caso di studio e c’è chi lo ha affrontato con competenza e nozioni enciclopediche (Alessandro Aresu, Elettra Dafne Infante e Alessandro Bartoli), a comporle furono musicisti autorevoli (Migliacci, Albertelli, Tempera), e a produrle e cantarle alcuni ottimi professionisti come I Cavalieri del Re, Nico Fidenco, Fabio Concato, Superobots/Rockin Horse e Oliver Onions.
Stabilito che il nostalgismo non può essere processato secondo parametri razionali e che qualsiasi lettura intellettualistica di temi spontanei rischia di suonare come una trombonata, c’è da dire che nel nostro caso, in quello della mia generazione di nati nei Settanta la nostalgia è un lusso prezioso o un viaggio nell’incubo.
Nei primi anni Ottanta Cristina D’Avena ha fatto irruzione nel mercato delle sigle dei cartoni animati. Con un progetto di omologazione di tutti i ‘suoni infantili’ evidentemente avallato dai vertici Fininvest, la ex bimba prodigio dell’Antoniano si è impadronita di tutte le sigle e le ha ricantate nel suo stile, che una pericolosa affinità ai cartoni animati più equivoci in effetti ce l’ha, perché è uno stile adulto, un timbro niente affatto particolare che per supplire spinge sempre all’estremo e all’euforia anche le melodie più sfumate e tenui ma soprattutto che le rende tutte identiche, distruggendo la bellezza specifica degli originali.
Laddove le sigle precedenti all’avvento della D’Avena erano splendidi lavori di ricerca ed esecuzioni inappuntabili, tutto il corpus della produzione daveniana è invece sciatto, sbrigativo e buttato lì per occupare delle posizioni, per coprire e presidiare il mercato.
Da qualche tempo lo stellone di Cristina D’Avena è tornato a splendere, appare spesso sugli schermi e regolarmente le viene tributato l’onore che si dedica ai pionieri, ai creatori di mondi e ai responsabili di un immaginario felice, quello dell’infanzia.
La cantante bolognese pubblica un album di duetti (Duets, appunto), e in molti fanno a gara per esserci, volontà legittima e omaggio solenne.
Se la meritano Cristina D’Avena.
Davvero, nulla da eccepire in senso assoluto ma che sia almeno chiaro che la nostalgia per gli anni di quelle sigle è un transfert forzato e che l’oggetto di quella nostalgia è una mistificazione. Quelle sigle non rappresentano infanzia e candore ma un lucidissimo progetto, molto mediocre, di revisionismo e ricostruzione. Ricantare tutto per cancellare la memoria degli originali.
A ciascuno la propria nostalgia ma se siamo costretti a rimpiangere i tempi di Cristina D’Avena e festeggiare le sue canzoni tutte uguali, tutte storte e tutte fuori tema, ben grama deve essere stata la nostra infanzia.
Se la meritano Cristina D’Avena.
Il testo della sigla originale di Lady Oscar (quella cantata dai Cavalieri del Re), recita così: Notte buia alla corte di Francia, a palazzo si dorme già/tre briganti con spada e con lancia, agguato a sua maestà/Lady Oscar s’è proprio nascosta nella grande stanza del Re/con scatto felino ed abile mossa colpirà tutti e tre.
Il testo di Cristina D’Avena invece è questo: Guarda il lampo che laggiù/Attraversa il cielo blu/È una luce abbagliante/Dura solo un istante/Poi c’è il rombo del tuono/Che tremendo frastuono/Ma in un attimo il silenzio c’è.
Se la meritano Cristina D’Avena, perché già esser figli della Guerra Fredda, del ’68 e degli anni dell’eroina è sufficientemente complicato, non serve aggiungere la bruttezza spaventosa dei testi e delle canzoni della D’Avena alle tare della nostra povera infanzia.