Sempre più povere e sole, non è più un paese per partite Iva

Un tempo eravamo i “padroncini” d'Europa. Oggi le partite Iva sono sempre meno, sempre meno istruite, sempre più povere. A crescere, solo gli autonomi senza dipendenti né ordini a proteggerli: di fatto, l’ultimo anello della catena del lavoro. Non una bella notizia

Sono calati ancora. A settembre la diminuzione anno su anno era di 60 mila unità, ma rispetto al 2007 sono invece 500 mila in meno. Si tratta dei lavoratori autonomi, i liberi professionisti o “padroncini”, coloro che per decenni, dopo l’esaurimento del boom economico, hanno incarnato l’immaginario di un modello italiano di crescita. Elogiati o bistrattati, da alcuni anni la loro crisi sembra irreversibile. E non solo e numericamente.

Innanzitutto perchè in Europa rimaniamo il Paese con più partite Iva: 4 milioni e 774 mila, davanti a Regno Unito, Germania (che pure ha 22 milioni di abitanti in più) e Spagna. Sono 1 milione e 900 mila più che in Francia, nonostante i 5 milioni di persone in meno.

Sono qui inclusi tutti gli autonomi, sia coloro che hanno dipendenti che coloro che non ne hanno. Ma probabilmente i più interessanti e paradigmatici del momento economico sono questi ultimi, essendo quelli che sono diminuiti maggiormente (di 336 mila dal 2007 al 2016), in controtendenza con quanto accaduto nella Ue, dove sono cresciuti di 178 mila.

Oggi, a differenza di prima, non è più l’Italia il Paese che ne ha di più in percentuale nell’Unione Europea, bensì il Regno Unito.

Ma chi sono questi autonomi, chi è rimasto con la partita Iva in questi anni?

Sempre parlando solo di coloro che non hanno dipendenti, a livello di età l’Italia la una percentuale più alta di persone che lavorano in proprio tra i 25 e i 49 anni, ovvero nel pieno della carriera. La differenza rispetto a quelli tra i 15 e i 24 anni e tra i 50 e i 64 non è enorme, tuttavia.

I divari maggiori emergono quando si parla di istruzione. Siamo primi, con il 22,5%, quanto a proporzione di lavoratori autonomi con terza media o meno. Caliamo a poco più del 13% tra le partite Iva diplomate e laureate.

In particolare negli anni è calata la quota italiana di autonomi laureati, soprattutto tra i giovani. Non si tratta tanto dei 15-24enni, segmento in cui i laureati sono numericamente pochissimi in valore assoluto, ma di quello successivo, dei 25-49enni, il più popoloso. Nel 2007 in questa fascia d’età era italiano il 18% delle partita Iva con una laurea. Eravamo primi, ma oggi siamo scesi al 14,9%.

I nostri autonomi sono quindi sempre meno istruiti rispetto a quelli dei vicini europei. La sensazione è che oggi questa strada sia intrapresa più per obbligo che per scelta, in particolare in quelle mansioni in cui i margini sono così bassi e a volte le skills richieste così ridotte da consentire turnover frequenti, ma non un costo del lavoro elevato o anche solo in media.

Ed è così che siamo primi per quanto riguarda la proporzione di autonomi che svolgono professioni tecniche e scientifiche e lo siamo anche negli ambiti della ristorazione e del turismo, nel settore immobiliare e del commercio e delle vendite, ovvero laddove negli ultimi tempi la redditività non ha certo brillato.

Sembra che sempre più i liberi professionisti vadano a riempire quegli interstizi del tessuto economico nei quali il reddito generato non è pari a quello di un posto più o meno stabile da dipendente.

E non è un caso se tra il 2008 e il 2015 a crescere sia stata quasi solo la nicchia dei liberi professionisti, appunto, e non degli imprenditori senza dipendenti, dei “padroncini”, e in particolare coloro che non sono protetti da alcun ordine professionale. Sono saliti di 117 mila unità, +51,6%. A questa crescita numerica è corrisposto un calo dei redditi.

In media questi figli di un dio minore, gli autonomi senza dipendenti e non facenti parte di alcuna corporazione, guadagnavano nel 2015 16.583 euro annui, il 22,6% meno che nel 2008, mentre i dipendenti erano a quota 28.138 euro, e coloro che facevano parte degli ordini 44.813.

Ancora una volta siamo di fronte a una delle tante forme che assumono le disuguaglianze e le asimmetrie nel mondo del lavoro, come risultato del tentativo di risposta alla crisi di produttività di cui soffriamo in modo cronico da decenni, e anche durante questa ripresa, nonostante l’aumento del Il.

Ogni ora di lavoro genera meno reddito, e nei settori meno produttivi per generare una certa quantità di prodotto o servizio servono tempo e personale non comprimibili. Il risultato è che, non potendo agire più di tanto sulla forza lavoro dipendente (nonostante le riforme non si può ridurre salari o orari a piacimento), si ricorre più che proporzionalmente a quella su cui è possibile effettuare risparmi rilevanti, pagandola solo per il tempo effettivamente necessario, e solo per quella parte di lavoro che ha portato a un fatturato, le partite Iva appunto. Partite Iva che continueranno, finchè il problema italiano della produttività non avrà fine, a essere la valvola di sfogo di un sistema in affanno, la categoria in fondo alla catena alimentare del lavoro.

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