La campagna elettorale è iniziata, ed è fatta solo di comunicazione (e zero contenuti)

Non sono state ancora sciolte le Camere, non si conosce la data del voto né la composizione definitiva delle coalizioni. Ma da Renzi a Berlusconi, da Di Maio a Salvini i leader politici sono già in viaggio. Per piazzare il proprio prodotto (cioè se stessi) sul mercato

La campagna elettorale non è – formalmente – iniziata. Ma, di fatto, è come se lo fosse. I principali leader delle forze politiche italiane non hanno aspettato che le antiche liturgie istituzionali si fossero compiute. Perché hanno l’esigenza di bruciare i tempi e di posizionarsi il più in fretta possibile sul mercato che conta davvero: quello della comunicazione. Vogliono far parlare di loro. Selezionare la loro immagine. Radicare nella discussione pubblica i loro slogan. Molti di questi leader sono già ufficialmente dei ‘candidati premier’, benché la legge elettorale non lo preveda. In breve, stanno piazzando i loro prodotti (cioé se stessi) in casa degli elettori. Prima che il presidente della Repubblica sciolga le Camere. Quindi prima che si sappia la data del voto per il rinnovo del Parlamento, probabilmente a marzo. E prima ancora che si siano stabilite una volta per tutte le coalizioni che si fronteggeranno alle urne. Se non è campagna elettorale, quella che è in corso da qualche settimana è sicuramente una poderosa campagna di marketing politico, che in caso di un risultato senza vincitori potrebbe essere l’unica cosa che rimarrà alle cronache.

Lo dimostra il fatto che quasi tutti i leader sono già in viaggio. Il segretario del Partito Democratico, Matteo Renzi, ha lasciato la stazione il 18 ottobre col treno ribattezzato Destinazione Italia. Renzi ha bisogno di rilanciare la sua immagine, dopo averla logorata nei tre anni di guida del Governo e di rotture anche drammatiche all’interno del centro-sinistra. Alle scorse elezioni, nel 2013, non era nemmeno candidato. Faceva il sindaco di Firenze e l’aspirante rottamatore della vecchia classe dirigente del partito. Ora Renzi, alle soglie dei 43 anni, è già un ex di lusso, un ex premier che ha subìto più di una scissione, oltre che la sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 che lo ha costretto a lasciare Palazzo Chigi. Nel viaggio in treno, Renzi ha scelto di incontrare soprattutto l’Italia che ce la fa, le imprese che innovano, le realtà che si sono sentite beneficiate dalla sua azione di Governo: il jobs act o la legge sul dopo di noi, per esempio. Ha scelto, insomma, di isolarsi nella sua camicia bianca dal dibattito di giornata per cercare di rifarsi l’immagine di outsider.

Il segretario del Partito Democratico è partito il 18 ottobre col treno ribattezzato Destinazione Italia. Renzi ha bisogno di rilanciare la sua immagine, dopo averla logorata nei tre anni di guida del Governo e di rotture anche drammatiche all’interno del centro-sinistra

E’ ancora tutto da vedere che questo tentativo, a Renzi, riesca fino in fondo. Perché è contro di lui, in quanto rappresentante dell’odiato passato (un vero cortocircuito comunicativo) che i leader degli altri schieramenti hanno impostato la loro pre-campagna elettorale. All’insegna di un nuovo nuovismo, verrebbe da dire. Il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, 31 anni, che ha debuttato in politica proprio nel 2013 e lo scorso settembre è stato votato come candidato premier dal Movimento 5 Stelle, ha iniziato il suo tour nazionale il 27 novembre, con quello che è stato chiamato il rally nelle province italiane. Per farsi conoscere. Per ascoltare. E anche per raccogliere fondi. Gli appuntamenti del primo mese sono stati programmati tutti al Nord, fra Lombardia e Veneto. Il candidato M5S si è mosso con uno staff ridotto. Ha incontrato come Renzi singole realtà che ce la fanno ma anche quelle che sono in difficoltà o che sono deluse proprio da chi è stato finora al Governo. Al Pd, Di Maio contesta di aver messo sul lastrico i piccoli risparmiatori delle banche in crisi e di aver aumentato la precarietà del lavoro. Al mondo intero – investitori internazionali compresi – ha invece garantito di essere l’ultima speranza per l’Italia, mettendo da parte i toni esaltati della prima ora grillina e tenendo in primo piano il suo completo scuro sempre impeccabile: “Gli altri continuano a fare promesse, ma perché non le hanno realizzate quando sono stati al potere?”.

Rispetto a Di Maio, Matteo Salvini, il segretario federale della Lega che toglierà il Nord dal prossimo simbolo elettorale e ha iniziato a preferire la camicia e le scarpe lucide alla felpa, ha un problema in più: se il Movimento 5 Stelle ha deciso di non avere alleati, lui sta invece per firmare un patto di coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia. In attesa che l’accordo finale sia stabilito, si dice prima di Natale, Salvini non ha tuttavia esitato a iper-personalizzare la sua pre-campagna elettorale. La livrea prescelta è lo slogan Salvini premier, con cartelli blu che richiamano quelli della campagna del Repubblicano Donald Trump alle presidenziali americane del 2016. Tutto è incentrato sul suo messaggio: prima gli italiani, dopo gli immigrati. Molto law and order. Un tour vero e proprio di Salvini non c’è, ma per una ragione molto semplice: il leader leghista è sempre in viaggio. Da mesi. Soprattuto nel Sud in cui cerca voti che ancora non ha. Rispetto a Renzi, per lui niente treno in vista o pullman o camper, anche perché i conti del partito sono stati bloccati. Rispetto a Di Maio, meno incontri a porte chiuse e più gazebo nei mercati (quelli di strada). Anche Salvini ha un ruolo nazionale dal 2013, malgrado sia in politica dal 1993. Alla fine, l’obiettivo dei tre leader più giovani è lo stesso: apparire l’uno più affidabile dell’altro. E più nuovo. Soprattutto, lontano dall’establishment.

Ecco, questa pre-campagna di marketing – in attesa di vedere la performance di Pietro Grasso a sinistra – può trascendere la campagna elettorale vera e propria. Non ha bisogno di riferimenti temporali precisi. Né di ferree norme costituzionali. Può permettersi di aspettarle e di non aspettarle

Un’ansia che ha anche – sorprendentemente – il quarto protagonista di questa campagna all’insegna del marketing politico. Silvio Berlusconi, che anzi può dirsi il pioniere della deriva comunicativa. Come Renzi, anche lui si presenta nei panni dell’outsider della politica italiana: ma lo fa dal 1994, da quasi ventiquattro anni. Come Di Maio e il suo ispiratore, Beppe Grillo, Berlusconi parla ancora di sé come uno che si è prestato alla politica per amor di patria. Come Salvini, infine, si presenta nei panni del difensore degli interessi degli italiani ma con meno eccessi del giovane alleato. La verità è che a 81 anni Berlusconi può fregarsene di tutto questo. E ha un solo obiettivo: rimanere se stesso, riabilitandosi agli occhi dell’opinione pubblica interna e delle cancellerie internazionali. Uscito da Palazzo Chigi nel 2011 sull’orlo di una crisi finanziaria e poi condannato in via definiva per frode fiscale, Berlusconi va sull’usato sicuro, nella sua settima campagna per le Politiche: va in tv (“faremo una testa tanta agli italiani per andare a votare per noi”) con l’abito di sempre, la cravatta a pois, la stessa posa, gli stessi slogan. E sembra dire: “Quando c’ero io, non si stava peggio di oggi”.

Ecco, questa pre-campagna di marketing – in attesa di vedere la performance di Pietro Grasso a sinistra – può trascendere la campagna elettorale vera e propria. Non ha bisogno di riferimenti temporali precisi. Né di ferree norme costituzionali. Può permettersi di aspettarle e di non aspettarle. Di perdersi in dibattiti aulici sulle fake news, le foglioline di un simbolo elettorale o in corride mediatiche su un non ancora dimostrato ritorno del fascismo. Quello che conta è piuttosto la presenza, il messaggio, la popolarità. Nemmeno le bandiere di partito si vedono più di tanto, attorno ai leader. Anzi, ormai solo quello Democratico ha mantenuto la parola partito nel suo nome. Perché il partito non deve esistere più. Il partito sono i leader stessi. Dopo il voto si vedrà. A proposito: ma quando si vota?

Twitter: @ilbrontolo

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