Black Mirror non è diventato buonista, siamo noi che siamo sempre più insensibili

La quarta stagione di Black Mirror — la seconda prodotta da Netflix — è uscita il 29 dicembre e già gli appassionati si dividono: in molti la considerano una versione annacquata e troppo ottimista dello show britannico, accusando Netflix di averle fatto vendere l'anima al pop, tutto vero?

Il 29 dicembre, Netflix ha pubblicato la quarta stagione di Black Mirror, serie distopica britannica ideata da Charlie Brooker, inizialmente prodotta e distribuita da Channel4 (7 episodi in 2 stagioni più uno speciale natalizio) e, dal 2015, per queste ultime due stagioni, “rilevata” e rilanciata proprio dalla piattaforma americana.

L’attesa era altissima, come anche le aspettative dei fedelissimi affezionati, eppure la loro reazione, almeno in questi primi giorni, è stata alquanto tiepida. Anzi, in molti casi, tra commenti e ironia, emerge una netta delusione. E se c’è chi scrive che le premesse erano promettenti ma non all’altezza dei risultati, in molti si dichiarano delusi dal fatto che Black Mirror non sappia più essere il vero Black Mirror, accusando il passaggio di consegna tra Channel4 e Netflix di aver un po’ annacquato il profondo e cupo pessimismo sulle sorti dell’Umanità e sulle nuove tecnologie che era sempre stato il carattere dominante della serie.

Tranquillizzante, a tratti forzato, poco ispirato: le stroncature che si leggono — paradossalmente — proprio su quei social network che spesso hanno fatto da scenografia agli incubi distopici degli sceneggiatori, sono tante. Qualcuno probabilmente sarà anche riuscito a definirlo buonista. Ma quanto c’è di vero in questa teoria sull’evoluzione — o meglio, involuzione — netflixiana di Black Mirror? Quanto è legittimo pensare che Brooker e soci si siano venduti l’anima al pop e che abbiano deciso di non voler urtare la sensibilità degli spettatori, optando per una svolta conservativa e più ottimista? Sinceramente? Ben poco.

A partire da USS Callister, la prima puntata delle sei, ambientata in un futuro molto molto prossimo in cui un giganerd bullizzato a lavoro clona digitalmente le coscienze dei suoi colleghi per invertire i rapporti di forza in un universo simulato che ha le fattezze di una serie televisiva spaziale anni Sessanta, fino ad arrivare all’ultima, caleidoscopica Black Museum, una sorta di antologia nell’antologia in cui una ragazza finisce in un museo del crimine dove scopre fino a che punto può arrivare il cinismo e la cattiveria umana, in nessuna delle puntate che compongono si scorge questa tanto vituperata strambata verso le acque chete dell’ottimismo.

Neppure nella San Junipero di quest’anno — così è già stata rinominata Hang the DJ, quarta della stagione — che, come la sua parente della terza, affronta il tema delle relazioni e dell’esistenza digitale, ma che definire “tranquillizzante” è un po’ arduo. Come pure pensarlo della criticatissima — per molti è la peggiore — Metalhead, la storia di una missione misteriosa, quasi onirica, senza capo né coda, che si tramuta in fuga disperata e senza scampo, ambientata in uno scenario à la Mad Max e girata tutta in bianco e nero, o anche della seconda, Arkangel, che porta alle estreme conseguenze l’iperprotettività materna in un contesto da Grande Fratello orwelliano.

Al di là dei giudizi personale, la cosa straordinaria di Black Mirror è come riesca a far parlare di sé, potrandoci, attraverso le nostre critiche, a parlare di noi. È questo l’elemento che rende questa serie qualcosa di ancora insuperabile. Certo, con i suoi alti e bassi. Certo, con scelte narrative più riuscite e altre meno (in questa stagione, la terza puntata, Crocodile, sembra, quella sì, un po’ forzata), ma sempre con una capacità — ben al di sopra di ogni altro prodotto narrativo contemporaneo — di dissotterrare le paure più antiche dell’uomo, ataviche e decisamente pretecnologiche, e farle reagire con qualcosa che ancora non esiste (la replica digitale della coscienza umana, per esempio, macrotema centrale di questa stagione) ottenendo qualcosa che non si chiama paura, né terrore, né tantomeno disagio o ansia.

Già, quello che riesce ad ottenere Black Mirror è più di un’emozione ed è qualcosa di veramente difficile per chiunque racconti storia, di qualsiasi pasta esse siano fatte, di pixel, di inchiostro, di fotogrammi, di musica: è la vertigine. È quella sensazione che ti manda lo stomaco in avvitamento, che ti fa girare la testa, che ti spariglia perfino la realtà che hai davanti. È quella piccola crepa che si insinua nell’obiettivo e che è diventata il logo della serie, uno sbaglio di natura, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci porta faccia a faccia con la verità.

È un “Black Mirror”, d’altronde, un’espressione che in inglese non significa banalmente “specchio nero” e non si riferisce a uno specchio che non riflette. Il Black Mirror è lo schermo nero del tuo computer quando si scarica all’improvviso mentre ci stai lavorando, giocando, cazzeggiando. È la vertigine e il brivido che si insinua nelle ossa quando ti trovi davanti a qualcosa che intuisci essere il tuo riflesso su quello schermo inerte e riconosci a stento il tuo volto indefinito, disumanizzato e indefinito dal nero. Ed è come se ti osservassi da fuori: ti ritrovi a pensare alla tua esistenza, alla tua caducità, alla tua assoluta contingenza e non necessarietà nei confronti dell’universo e della vita degli altri. Gli altri, che intanto, soli come te, pensano lo stesso di sé. E lo schermo nero rimane lì, con quel volto che potrebbe essere di tutti ma che eppure ti somiglia così tanto, quasi da farti paura.

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