E speriamo che stavolta qualcuno, tra la molto varia e per niente innocente genìa dei direttori artistici e gli addetti alla cultura ci faccia caso. Sarebbe ora, davvero. A Firenze, la Carmen con la regia di Leo Muscato va in scena col finale cambiato. Non è più Don Josè che uccide Carmen, ma è lei che uccide lui. Presa di posizione contro il femminicidio.
Solo che diverse cose vanno storte. Innanzitutto la pistola di Carmen non spara. Problema tecnico. Secondo: il pubblico fischia. E non solo il pubblico. C’erano stati già dopo la prova generale sberleffi e rimostranze dei critici. E oggi, sui social e non solo, la faccenda monta e monta: il finale cambiato, civilmente meritorio, non va giù. C’è un limite alla rilettura ideologica delle opere d’arte per adeguarle alle istanze morali, per quanto legittime. Il fatto che per salvare (idealmente) la protagonista si massacri (nei fatti) un’opera d’arte, alla fine non va giù.
E nonostante la dichiarazione del sindaco di Firenze Dario Nardella (“È giusto che Carmen non muoia”, maddeché) restano fastidi, sberleffi, e una pistola che non spara. Vendetta poetica della forma dell’opera d’arte sul contenuto, sull’ideologia, su quello che una volta, nei grigi anni Settanta si chiamava “il messaggio”. Se vuoi mandarmi un messaggio fai un telegramma diceva Ennio Flaiano. Non c’è bisogno di scrivere, o riscrivere, un’opera.
Perché (ci ammorbiamo solo a ripeterlo) la moralità di un’opera d’arte non si misura sulla moralità dei suoi contenuti spiattellati sulla realtà. Perché, diversamente da quello che pensavano le femministe sempre negli anni Settanta, non basta riscrivere la morte di Didone o il finale di Anna Karenina, o l’Antigone, per fare il mondo a good place to be. Perché le opere d’arte hanno sempre delle linee di tensione interne, formali, non riducibili alla bontà/cattiveria e alla moralità/immoralità dei contenuti. Non rendersene conto (e quindi trattare le opere d’arte di qualsiasi genere come manifesti ideologici) prima di tutto è da ignoranti. E modificare la trama di un’opera per adeguarla a questa o quella idea del mondo si chiama in un solo modo: censura. È un’insulto all’opera (e pazienza), ma soprattutto un’insulto all’intelligenza del pubblico, a cui viene negata la capacità critica di distinguere tra finzione e realtà.
La storia di questo conflitto tra spinte politiche e contenuti delle opere d’arte è antica, ramificata, mai innocente. Certe volte, addirittura, ha dato origine a capolavori, vedi alla voce Eneide o Inno delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Ultimamente sembra spingere a considerazioni surreali: i film di questo o quel molestatore sarebbero da evitare (forse), le serie sulla camorra ci farebbero camorristi (forse). Per fortuna, poi arriva una pistola che non spara.