E’ pronto un nuovo giro. Passata la sbornia (e la sberla) del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, che ha cancellato la riforma voluta da Matteo Renzi, dopo le elezioni Politiche ci sarà chi tornerà a promettere di cambiare il sistema istituzionale italiano. E’ accaduto sempre, nella seconda repubblica. O quasi. Basta dare un’occhiata veloce ai pezzi di programma che i diversi schieramenti hanno fatto cadere qua e là nel dibattito elettorale.
Il centrodestra gioca sull’usato sicuro. Nei dieci punti sottoscritti da Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni spicca infatti la formula magica: riformare la Costituzione in senso federale (cavallo di battaglia della vecchia Lega nordista), ma introducendo una forma presidenziale dello Stato (tema caro al Cav e alla destra nazionale). E’ quello che il centrodestra ha proposto a dosi alterne dal 1994. Nel 2005 ci è quasi riuscito, con la riforma ispirata da Umberto Bossi e firmata da Roberto Calderoli: devoluzione di poteri, con maggiori prerogative per il capo del Governo (ma non al presidente della Repubblica). Un referendum l’ha però bocciata nel 2006.
La novità di quest’anno è l’impegno a sostenere la concessioni di maggiori forme di autonomia alle Regione, in base all’articolo 116 della Costituzione. Lo stesso su cui si sono espressi i cittadini di Lombardia e Veneto, il 22 ottobre scorso, facendo avviare una trattativa con il Governo. E’ su questo punto che si intrecciano le strade del centrodestra e del centrosinistra. Il Pd, sul tema delle riforme costituzionali, è costretto ovviamente a tenere il profilo più basso. Promettere un’altra rivoluzione, non conviene. C’è però un passaggio nel manifesto programmatico del Pd che dice che per rendere più semplice la macchina dello Stato ci vuole una sola cosa: la sussidiarietà. Tradotto, bisogna restituire dignità agli enti locali, a partire dai Comuni. Ma anche puntare a un “regionalismo differenziato”, che è poi il federalismo invocato dal centrodestra.
Tanto o poco, i politici italiani promettono di cambiare la macchina che si candidano a guidare. Come se la trasformazione di alcune leggi, pur di rango costituzionale, possa fare comportare meglio le persone e aumentare l’etica nella gestione della res publica. Nessuno finora ci è riuscito
Non un tema nuovo, perché è stato il centrosinistra a promettere una rivoluzione nel sistema delle Regioni, approvando fra il 2000 e il 2001 la famosa riforma del titolo quinto della Costituzione, che ha fatto nascere la figura mitologica dei governatori ma anche i grandi scandali legati all’eccessiva concentrazione di potere nelle loro mani, soprattutto nella sanità. Ma nella riforma di Renzi, nel 2016, le Regioni erano destinate a essere fortemente ridimensionate. Fino al cambio di prospettiva di oggi.
In tutto questo, la posizione più pragmatica sembra quella del Movimento 5 Stelle. Che nel suo programma, alla voce riforme costituzionali, indica come inutili i grandi cambiamenti di regole ma invece come necessari i piccoli aggiustamenti di quello che non va. Solo che fra questi piccoli aggiustamenti – come il tetto dei due mandati parlamentari e l’abbassamento del diritto di voto ai 16 anni di età – ve n’è almeno uno di forte impatto: l’introduzione del vincolo di mandato contro i deputati e i senatori che cambiano gruppo nel corso della legislatura. E’ la stessa proposta – bocciata dai costituzionalisti, visto che il parlamentare rappresenta l’interessa della nazione non di una sua parte – che avanza anche il centrodestra a trazione Berlusconi-Salvini.
Insomma, tanto o poco, i politici italiani promettono di cambiare la macchina che si candidano a guidare. Come se la trasformazione di alcune leggi, pur di rango costituzionale, possa fare comportare meglio le persone e aumentare l’etica nella gestione della res publica. Nessuno finora ci è riuscito. Anzi, è evidente che guidare una macchina imperfetta torna sempre utile quando bisogna chiedere di nuovo il voto agli elettori.
Twitter: @ilbrontolo