In italiano l’hanno intitolato “Il filo nascosto”, ma la traduzione è maldestra perchè questo Phantom Thread, ultima perla di Paul Thomas Anderson, è una storia che nasconde altre storie, una trama che nasconde sottotrame e dietro l’imbastitura raffinata della storia dello stilista Reynolds Woodcock, di Londra, emerge una trama nascosta che parla di cosa sia il cinema e il gusto per Paul Thomas Anderson. Cosa viene fuori? Un bellissimo elogio della natura elitaria dell’arte cinematografica e, contemporaneamente, un durissimo affondo contro il suo presunto classismo.
Reynolds Woodcock è uno stilista esigente, preciso al limite del monomaniaco e molto, molto sicuro di sé. Come tutti gli artisti, anche lui ha le sue fissazioni: fare colazione in assoluto silenzio con la sorella e la compagna del momento, non sposarsi mai e nascondere dei messaggi negli orli delle sue straordinarie creazioni.
Woodcock è il migliore. Da lui si vestono principesse, regine, nobildonne, ricche borghesi. Le élite, i detentori e le detentrici del gusto dell’alta società londinese fanno la fila per indossare un suo abito. Ma non tutti sono degni di vestirsi da Woodcock, perché Woodcock potrebbe sembrare anche uno snob, perché sa bene che i vestiti che crea hanno bisogno di una disposizione d’animo della stessa altezza per poter essere indossati. E bisogna meritarseli.
Quando una borghesotta innamorata di lui e delle sue creazioni, da sempre sua cliente, si presenta alla sua porta per chiedergli l’abito con cui si sposerà, Woodcock accetta suo malgrado. La borghesotta ha qualcosa che non va e non c’entrano i chili di troppo, c’entra il suo atteggiamento verso l’arte e verso la bellezza. Quella donna non è lì da lui perché sa cosa è bello e lo vuole. Quella donna è lì da lui perché pensa che basti quel nome scritto nell’etichetta del vestito a renderlo bello.
E il tipico rapporto con l’arte della borghesia, un approccio ansioso, ignorante, soltanto di facciata. È un gesto puramente sociale, un tentativo di distinzione all’interno di una battaglia per cambiare e migliorare la proprio traiettoria sociale. È un gesto di apparenza, insomma, e infatti quella donna, di quel vestito, non ha il minimo rispetto. Lo usa per apparire come una che si può permettere un vestito firmato da Woodcock per le nozze, ma poi, ubriaca fradicia, ci si addormenta dentro svenuta.
Woodcock però è un artista e, come ogni artista vero, non può accettare che quella cicciona arricchita che non sa nemmeno darsi un contegno e sviene ubriaca in pubblico, indossi una sua creazione. Il sentimento di schifo e di repulsione di Woodcock verso questa cafona che pensa di capire qualcosa di estetica e di gusto soltanto perché ha soldi è potentissimo. È su questa repulsione che Anderson costruisce l’asse più interessante di questo straordinario film: una grande e bellissima stilettata contro il cattivo gusto della borghesia cafona, a favore della purezza della bellezza.
La scena centrale, da questo punto di vista, è questa: una mattina, Woodcock chiede che fine abbia fatto quella sua cliente di solito molto affezionata di cui sopra. Quando la sorella, aiutante tuttofare e confidente numero uno, gli risponde che la tizia in questione ha cambiato maison, Woodcock alza lo sguardo stranito: «C’è qualcosa di cui sono all’oscuro?» le dice, «Perché, da quanto mi ricordo, tutto quello che ho fatto è vestirla in modo suberbo». «Non credo che sia quello che conta per certa gente», risponde la sorella Cyril «Credo che vogliano ciò che reputano fashion e chic». A quel punto Woodcock non ci vede più dalla rabbia: «Chic? Oh, non usare quella parola schifosa», sbotta. «Chic! Chiunque abbia inventato questo termine dovrebbe essere picchiato in pubblico. Non so nemmeno cosa significhi quella parola! Che cos’è? Dannati chic! Dovrebbero essere impiccati, affogati e squartati. Dannati chic».
In quelle poche frasi Woodcock fa a pezzi come un machete una intera classe, quella della borghesia chic, che cerca di sopperire coi soldi alla propria totale mancanza di gusto e di eleganza. «Dovrebbero essere impiccati, affogati e squartati. Dannati chic di merda», urla alla fine della scena di cui sopra Reynolds Woodcock, ma se dietro alla voce di Daniel Day Lewis si sente l’eco di quella del regista stesso, di Paul Thomas Anderson, controfigura reale di quell’artista, che grida con questo suo film perfetto e raffinato, tutto i suo odio per la mediocrità di un certo pubblico cinematografico che, volendosi distinguere ma mancando completamente di eleganza e di estetica, non capisce più la differenza tra la merda e i cioccolato e sceglie sulla base, appunto, dell’apparenza.
Come vedete, esattamente come i vestiti di Woodcock, anche il film di Paul Thomas Anderson ha la sua trama nascosta, dettagli invisibili cuciti in filigrana, nascosti negli orli. E le parole Daniel Day Lewis in realtà non parlano di vestiti, ma di cinema, di estetica, di una sorta di “politica” del gusto. E il messaggio è di quelli molto molto importanti, da tenere in alta considerazione: il cinema è elitario, è per pochi, ed è sacrosanto e giusto che sia così. Ma non è classista, non distingue per sangue, né per diritti di nascita o per spessore di portafoglio. Distingue sulla base del gusto vero, della disposizione d’animo, della passione.
Come i vestiti di Woodcock, anche questo film di Anderson è complesso, raffinato, difficile da indossare, faticoso da portare. Non richiede soltanto gusto, ma anche la voglia di fare fatica per assaporarlo, perché non è facile, non è un fottuto vestito pret à porter. Per fortuna siamo nel mondo del cinema, però, perché se nella moda vera un vestito di Channel costa 1000 volte un vestito dell’OVS, in questo caso abbiamo più fortuna e il biglietto per questo capolavoro di Paul Thomas Anderson ve lo potete portare a casa alla stessa cifra di un Ozpetek o di un Brizzi. A voi la scelta.