Il femminismo è una lotta radicale, non una moda da instagramer

L'ultimo pamphlet dell'attivista americana Jessa Crispin, intitolato ”Perché non sono femminista“, si scaglia contro la versione pop e mainstream del femminismo, colpevole di aver disinnescato il suo messaggio radicale, ma il suo ragionamento è prezioso per tutto il pensiero radicale contemporaneo

C’è un gioco che si fa spesso da bambini che consiste nello ripetere all’infinito una parola, fino a quando questa, come per magia, sembra apparire totalmente priva di senso. Resta puro suono, un puro significante privo di significato che, nell’attesa di studiare semiotica, i bambini chiamano con più semplicità un mucchietto di lettere messe in fila a caso. Ma se questa ecolalia bambinesca è divertente, e forse persino istruttiva, questo stesso meccanismo può diventare un’arma impropria e potente di delegittimazione, di svuotamento, di banalizzazione e infine di uccisione di parole, di idee, di movimenti.

È quello che è successo, per esempio, con il femminismo. Almeno a quanto scrive l’attivista americana Jessa Crispin nel suo ultimo pamphlet intitolato provocatoriamente Perché non sono femminista e appena tradotto in italiana da Giuliana Lupi per la casa editrice Sur.

Il femminismo, dalla sua nascita fino ad oggi, come tutti movimenti di pensiero rivoluzionari, ha avuto una storia ciclica, con le sue fasi d’avanguardia violente e radicali e con quelle di ripiegamento. Quello che è in atto negli ultimi anni, però, ricorda moltissimo proprio il risultato dell’ecolalia bambinesca e infatti, sia la parola che la filosofia che stava alla base del femminismo, ripetuta all’infinito per riuscire a universalizzarsi e diventare di massa, ha diluito a tal punto la sua spinta radicale da essersi depotenziata e disinnescata.

«Perché il femminismo sia gradito a tutti bisogna fare in modo che i suoi obiettivi non inquietino nessuno; quindi le donne che si battevano per un radicale cambiamento della società sono fuori. […] Perciò, mentre il femminismo è ormai di moda, la concreta azione femminista per creare una società più equa è malvista come sempre».

Eccolo qui, il risultato dell’ecolalia poppizzante: per universalizzare devi attenuare, non spaventare, non provocare, sostanzialmente autonegarti, dunque. E quella che era un’autobomba pronta ad esplodere nel bel mezzo del salotto buono del patriarcato occidentale trasformata nel giro di pochi anni da filosofia rivoluzionaria, ovvero minacciosa per l’ordine sociale, in semplice “stile di vita”. E come Crispin ce lo ricorda spesso con saggezza: non è con gli stili di vita che si cambia il mondo.

Potrebbe sembrare paraculo dire, da uomo, che un libro del genere è importante che lo leggano tutti, non soltanto le donne per il quale è stato scritto e pensato dall’autrice. Ma non lo è affatto perché è veramente importante che lo leggano tutti, uomini inclusi, non certo perché debbano diventare “femministi”, e nemmeno per ampliare ancor di più la moda di una lotta trasformata in stile di vita. Questo pamphlet lo devono leggere tutti perché contiene alcune delle migliori osservazioni su cosa significhi coltivare un pensiero radicale nella nostra epoca e nella nostra parte del mondo.

Parlando del femminismo, della sua traiettoria nella società occidentale, delle sue contraddizioni e delle sue modalità di esistenza, Jessa Crispin tocca praticamente ogni punto debole di ogni pensiero radicale: dall’ineluttabile scacco che riceve nel passaggio da lotta a quotidianità all’innata difficoltà del riconoscere in sé i mali del mondo che si vogliono attaccare; dalla minaccia di una certa tendenza individualista per le lotte radicali e rivoluzionarie, fino al destino paradossale e beffardo che spetta ad ogni lotta che non riesce a un certo punto a unirsi con le altre: limitarsi a sostituire i dominanti coi dominati ricreando le stesse dinamiche di sfruttamento con cui aveva lottato.

C’è una intuizione che emerge tra le righe del discorso di Jessa Crispin e che merita di essere conservata e riflettuta negli anni a venire: ogni lotta radicale di emancipazione, se vera lotta vuole essere e se veramente vuole aspirare al sovvertimento delle dinamiche di sfruttamento, deve sì partire dal proprio particolare — le donne, i precari, i migranti, i disoccupati e via dicendo — ma deve nutrire ambizioni universali e saper tendere e confluire nella madre di tutte le battaglie che l’Umanità prima o poi troverà il modo di combattere: una lotta di emancipazione universale che abbia come obiettivo la libertà di autodeterminazione degli individui, delle comunità, dei popoli.

Una lotta il cui nemico non sono altri uomini e altre donne, bensì le strutture del pensiero, quel patriarcato che Jessa Crispin descrive perfettamente nel bel mezzo del suo pamphlet, centrando perfettamente i cuore del nemico: «Il patriarcato non è soltanto una questione di libertà personale delle donne. Non è noi contro di loro. È il sistema grazie al quale i potenti mantengono la propria posizione attraverso il controllo e l’oppressione dei molti».

Ecco qual è il nemico: «è la nostra intera cultura, il fatto che si fondi sul denaro, premi la disumanità, incoraggi le divisioni e l’isolamento, provochi grandi disuguaglianze e sofferenze. Èd è questo l’unico nemico che vale la pena combattere».

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