Il patto con il diavolo: così i sauditi mettono nel sacco Washington e Londra

Mohammed bin Salman ha offerto 60 miliardi di dollari di scambi commerciali all'Inghilterra e si prepara al possibile collocamento dell’Aramco (la maggiore società petrolifera del mondo) alla Borsa inglese. E agli inglesi questi soldi fanno comodo. Per pagare i costi della Brexit

Quando si parla di denaro, soldi e potere gli autocrati arabi diventano improvvisamente dei brillanti riformatori: è il caso di Mohammed bin Salman che a Londra ha messo sul piatto 60 miliardi di dollari di scambi commerciali e si prepara al possibile collocamento alla Borsa inglese dell’Aramco, la maggiore società petrolifera del mondo, la cassaforte della famiglia reale saudita. Un evento epocale che però probabilmente non avverrà prima del 2019: il motivo è che il principe e i suoi consiglieri non hanno ancora ottenuto la quota di 2mila miliardi di valutazione della società, un traguardo considerato indispensabile prima di collocarne il 5 per cento sui mercati internazionali. Tutti ormai lo chiamano il “big deal”, oltre 100 miliardi di dollari.

Una boccata d’ossigeno per la Gran Bretagna che deve pagare i costi della Brexit. Gli inglesi vorrebbero accelerare i tempi perché temono la concorrenza degli americani, da sempre i grandi sponsor del regno wahabita: ed proprio a Washington che andrà tra qualche giorno il principe dove troverà, a oltre Donald Trump, il genero del presidente Jared Kushner, che sfruttando il suo ruolo di inviato speciale per il Medio Oriente e l’amicizia con il premier israeliano Benjamin Netanyahu è diventato grande amico dell’erede al trono saudita. Sarebbe stato Kushner a incoraggiare una visita segreta del principe in Israele per fare fronte comune contro l’Iran sciita e il suo alleato siriano Bashar Al Assad.

Pur di fare affari con Riad, si attutisce l’impatto devastante della guerra saudita in Yemen contro i ribelli Houthi sciiti (9 milioni a rischio di carestia), l’assedio e le sanzioni al Qatar, i finanziamenti in questi decenni del Regno wahabita i tutto il mondo musulmano agli integralisti a agli imam più retrogradi: quello con i sauditi è un altro “patto con il diavolo” cui Londra e Washington non vogliono e possono rinunciare.

Dall’inizio del conflitto gli inglesi hanno venduto 4,6 miliardi di sterline di armi a Riad. Per non irritare troppo il Qatar, ai ferri corti con Riad per l’appoggio di Doha ai Fratelli Musulmani, Londra in dicembre ha venduto anche al Qatar 24 caccia per un valore di 5miliardi di sterline. Si tratta della solita politica ambigua dell’Occidente che non vuole rinunciare a tenere in piedi il suo complesso militare-industriale

È così che gli inglesi hanno appena venduto ai sauditi 48 caccia Eurofighter Typhoon -di cui una quota consistente è della Leonardo-Finmeccanicaper un valore di 10 miliardi di sterline: si tratta della maggiore commessa militare da quando il principe Mohammed bin Salma, MBS per i media, è diventato nel 2015 ministro della Difesa. Dall’inizio del conflitto, una sorta di Vietnam arabo che i sauditi non riescono a vincere neppure con il sostegno degli americani, gli inglesi hanno venduto 4,6 miliardi di sterline di armi a Riad. Per non irritare troppo il Qatar, ai ferri corti con Riad per l’appoggio di Doha ai Fratelli Musulmani, Londra in dicembre ha venduto anche al Qatar 24 caccia per un valore di 5miliardi di sterline. Si tratta della solita politica ambigua dell’Occidente che non vuole rinunciare a tenere in piedi il suo complesso militare-industriale: la British Aereospace ha 30mila dipendenti e recentemente ha dovuto lasciare a casa 1.400 lavoratori.

Per rendere meno indigesta la pillola all’opinione pubblica britannica il principe a Londra ha generosamente versato 100 milioni di sterline a un fondo destinato ai Paesi poveri e si sottolineano le riforme saudite, da quelle economiche a quelle del costume (patente alle donne e loro presenza allo stadio e nell’esercito), lasciando un po’ da parte che da quando il principe è al comando si sono intensificate le condanne a morte. Mentre dalla classifica di Forbes sono spariti 10 miliardari sauditi, che qualche tempo fa insieme al principe Walid bin Talal sono stati rinchiusi in alberghi di lusso e costretti a lasciare sul tavolo i loro patrimoni con l’accusa di corruzione.

Vale la pena ricordare come è cominciato il rapporto con l’Arabia Saudita, che con Israele è il pilastro della politica occidentale in Medio Oriente.

L’Arabia Saudita è di gran lunga il maggior partner commerciale americano in Medio Oriente, il suo più importante acquirente di armi – oltre 100-120 miliardi di dollari negli ultimi cinque anni secondo il Congresso – e anche uno dei maggiori investitori in dollari e buoni del Tesoro Usa.

In Arabia Saudita tutto nasce all’insegna del Corano e soprattutto del dollaro. A partire dall’estrazione del petrolio avviata dalla Standard Oil nel 1938 e dall’Aramco, la società di Stato, fondata da tre compagnie Usa. Il bollino di garanzia sul Regno verrà incollato qualche anno dopo da Roosevelt. Pur di compiacere i dettami islamici del suo ospite saudita, il monarca Abdulaziz Ibn Saud, Franklin Delano Roosevelt 73 anni fa si nascose a fumare l’amato Avana nell’ascensore dell’incrociatore Quincey ormeggiato nel canale di Suez. Si era informato bene: qualche tempo prima il Re saudita non aveva sopportato né il sigaro di Churchill né le sue bevute di wiskey. Era il 14 febbraio 1945, dieci giorni dopo Yalta, Stati Uniti e Arabia Saudita stavano per stringere un patto fondamentale negli equilibri del Medio Oriente: petrolio e basi aeree a Dahran in cambio della protezione americana del Regno.

Non è un caso che appena dopo l’11 settembre 2001 la prima preoccupazione degli americani sia stata mettere in salvo i membri della famiglia Bin Laden presenti negli Usa. Forse Trump non ha neppure dimenticato che il 25% della campagna elettorale di Hillary Clinton sia stata finanziata da Riad.

La politica mediorientale americana comincia così, a bordo dell’incrociatore Quincy. Ma oltre al petrolio Roosevelt chiese un’altra cosa al sovrano, rappresentante della versione più puritana dell’Islam e custode della Mecca: il suo appoggio all’emigrazione ebraica in Palestina. Ibn Saud declinò, affermando che avrebbe urtato gli interessi degli arabi. Il 5 aprile Roosevelt in una lettera si impegnò a non sostenere il ritorno degli ebrei. Ma il successore Harry Truman rinnegò l’impegno e votò all’Onu nel ’47 la spartizione della Palestina: scelse Israele al posto del petrolio, senza naturalmente rinunciarvi. Essere superpotenza significa anche sfruttare posizioni inconciliabili a proprio vantaggio.

Ed è quello che probabilmente farà anche Donald Trump, che essendo contrario all’accordo sul nucleare voluto da Obama con l’Iran nel 2015 ha sicuramente dei punti di vantaggio sul suo predecessore.

Del resto nel 1947 furono gli americani a fondare la Banca centrale e la Saudi Arabia Monetary Agency convincendo Ibn Saud a investire tutto in dollari – ancora oggi l’85% delle riserve di Riad, 600 miliardi, sono in dollari e titoli Usa – e a oltrepassare il divieto della sharia, la legge islamica, che vieta i prestiti con interessi. Facevano tutto gli americani, che con i soldi sauditi hanno finanziato il loro debito offrendo a Riad i bond ancora prima che andassero alle aste. Con una clausola: mai nessuno avrebbe rivelato i nomi degli investitori sauditi.

Non è un caso che appena dopo l’11 settembre 2001 la prima preoccupazione degli americani sia stata mettere in salvo i membri della famiglia Bin Laden presenti negli Usa. Forse Trump non ha neppure dimenticato che il 25% della campagna elettorale di Hillary Clinton – per ammissione proprio del principe -sia stata finanziata da Riad. Ma questi sono dettagli trascurabili per un businessman e un uomo di mondo.

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