Norvegia, isola di Rost. Canini di pietra che addentano la coscia del Grande Nord. Siamo nel 1996. “Erano gli anni della moratoria alla caccia alle balene. Lì ho avuto il mio ‘battesimo del ghiaccio’, per così dire. Mi è venuto in mente di imbarcarmi con i balenieri. Non è stato così facile”. Perché? “Volevano capire se ero uno di Greenpeace. Mi hanno fatto l’esame del sangue. Ho cucinato filetto di balena con salvia e vino bianco. Così, sono diventato amico di un baleniere che difendeva gli interessi dei pescatori. E mi sono imbarcato”. Se gli chiedo perché il Nord, perché sbattere il muso verso i luoghi ostili, bastardi, lui fa, candido, “il Nord è il nostro destino”.
Io ho in testa il bianco allucinato di Gordon Pym, le zanne di Jack London, la purezza cristallina della Zembla di Vladimir Nabokov, quando afferro Artico. Stampa Neri Pozza (pp.224, euro 13,50). Il libro sta nella tasca del giubbotto. Beh, diavolo. Chi ha scritto Artico getta un iceberg contro il mio trito romanticismo nordico. Sbriciola sogni di innocenza boreale. Sottolineo due frasi. Uno. “Ci piacerebbe che esistesse un luogo così, senza storia, dove le cose sono sempre state come sono, una parte del pianeta ibernata in un’immacolata, primordiale purezza”. Due. “Era quasi la Luna, la Groenlandia. E improvvisamente potrebbe diventare una nuova Africa, un Congo boreale”. Al tre telefono all’editore. Chi diavolo ha scritto un libro così bello, così cangiante, così candido nella sua brutalità?
Continua a leggere su Pangeanews.